Ieri sera sono partita con il mio compagno per Bormio dove abbiamo pernottato, per poi trascorrere quasi l'intera giornata a goderci il meritato relax presso le terme della ridente cittadina valtellinese. Dopo essere arrivati nello stabilimento termale ci siamo abbigliati con costume, asciugamano e ciabatte, e abbiamo depositato negli appositi armadietti tutto quello che non ci sarebbe servito; nel mio caso ovviamente pure la borsetta, con tanto di smartphone. Credo di non aver mai passato così tanto tempo senza usare lo smartphone, perlomeno nelle ore di veglia, da quando ce l'ho, uno smartphone! ;-)
[In verità all'ora di pranzo sono andata a recuperare il telefono per provare a prenotare un tavolo per cena, senza peraltro ottenere risposta perché quel ristorante è aperto solo nelle ore serali... ma questo non conta, vero? ;-)]
Comunque ne ho viste diverse, di persone che non sono riuscite a separarsi dai loro smartphone nemmeno nelle piscine, dove il rischio che l'acqua potesse far danni era tutt'altro che trascurabile. Un pochino le ho invidiate, perché anche a me sarebbe piaciuto scattare qualche foto di quello che stavo vedendo; soprattutto la vista che si poteva ammirare dalle vasche esterne – acqua calda e una temperatura dell'aria intorno allo zero, non pensavo che facesse per me, invece è stato persino piacevole – sovrastate dallo spettacolo delle montagne colorate d'autunno e parzialmente innevate... ma poi me ne sono fatta una ragione! ;-)
Colgo l'occasione per condividere il link all'articolo Il filosofo Galimberti: “Il selfie è una tragedia: fotografiamo la vita mentre lei se ne va da un’altra parte” pubblicato su La Stampa, riguardo al quale mi trovo d'accordo solo in parte con il professor Galimberti; è vero che io di selfie non me ne faccio quasi mai, né tantomeno li pubblico sui social, perché lo trovo un tantino frivolo – e pure perché con la fotocamera frontale vengo malissimo, diciamolo ;-) – ma quando Galimberti asserisce «Fotografiamo tutto, noi stessi nello specchio dell’ascensore, un tramonto, un’alba, una nascita, di fatto non vivendo mai in modo diretto la realtà, ma pensando all’inquadratura, a frapporre fra noi e la vita che sta accadendo, un congelatore di immagini e sensazioni, che accumuleremo in una memoria digitale destinata a non essere consultata mai, perdendoci così il sapore vero della vita» dissento senza esitazioni. Per quanto mi riguarda, rimpiango un sacco di aver fatto meno foto di momenti, persone e situazioni che non torneranno mai più; immortalarli mi avrebbe aiutata a fissarne il ricordo nella mia memoria cerebrale, che a differenza di quella digitale (alla quale è sufficiente fare regolarmente backup) sta perdendo colpi, e poi le avrei consultate eccome. Per dire, in molti musei scattare foto è proprio vietato, e io mi godrei molto di più la visita se questo divieto venisse meno. L'unico punto su cui concordo è il fatto che l'eccessivo perfezionismo nel preparare lo scatto possa far perdere tempo prezioso: meglio fotografare "alla come viene viene", piuttosto che lasciarsi sfuggire l'attimo.
Una tesi che invece mi sento di condividere appieno è quella promossa dall'articolo Messaggi vocali su WhatsApp, ecco perché dovete smettere di inviarli, sempre su La Stampa. Tizio a digitare tot parole impiega diciamo cinque minuti, mentre a registrare le stesse parole in un messaggio vocale ci mette molto meno. Io a leggere il messaggio di cui sopra ci metto pochi secondi, essendo abbastanza rapida nella lettura, mentre ad ascoltare il vocale impiego lo stesso tempo che ci ha messo Tizio a registrarlo (a meno di non riprodurlo a maggiore velocità), senza contare che non sempre sono nelle condizioni di ascoltarlo subito, e magari devo pure ingegnarmi per trovare il modo di farlo. Morale: dal punto di vista di Tizio il suo tempo vale palesemente più del mio, e questo non mi rende molto ben disposta nei confronti di quello che Tizio intende comunicarmi! ;-)
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