mercoledì 13 aprile 2016

Il diritto di rifarsi una vita dopo aver ucciso

Nove anni fa destò una grande impressione nell'opinione pubblica, e naturalmente nella sottoscritta, la notizia della tragica morte della ventitreenne Vanessa Russo: in seguito a un banale litigio nella metropolitana di Roma, l'allora ventunenne Doina Matei, rumena, le aveva conficcato la punta dell'ombrello nell'orbita procurandole una lesione letale.
Lo ammetto, quando ieri ho letto che la Matei, a neppure nove anni dalla condanna, poteva godere del regime di semilibertà e addirittura aveva aperto un profilo Facebook nel quale pubblicava foto di sé stessa serena e sorridente, come la sua vittima non potrà essere mai più, il mio primo pensiero è stato: non è giusto.
Ma riflettendoci bene è ancora più ingiusto che alla ragazza sia stata revocata la semilibertà, a quanto pare proprio per quelle foto su Facebook. Impossibile non farsi cogliere dal dubbio che la decisione del magistrato Vincenzo Semeraro sia stata pilotata dall'indignazione del popolo della Rete; i più esaltati hanno invocato addirittura la pena di morte.
Quello che ha fatto la Matei è tremendo, non lo metto in discussione... ma va sottolineato che è stata condannata per omicidio preterintenzionale, non certo volontario, e credo che nel suo caso la detenzione sia davvero servita a fare di lei, che prima del delitto si prostituiva e viveva di espedienti, una persona migliore: proprio il suo sincero pentimento e la sua buona condotta le erano valsi mesi fa la semilibertà. Nel racconto autobiografico La ragazza con l'ombrello, scritto con l'aiuto della giornalista Franca Leosini, Doina scriveva
Vanessa non aveva vissuto molti giorni felici, tutti gli altri glieli avevo tolti io. È soprattutto la felicità possibile che le ho sottratto che mi logora con tormento maggiore. Ho provato a dire alla madre, ai fratelli di Vanessa, il mio tormento, lo sgomento, il rimorso per quei suoi giorni senza futuro. Ho invocato il perdono. Non ho avuto risposta. Tocca a me, ora, piegarmi a quel loro silenzio. Tocca a me comprendere il rifiuto, il disprezzo anche.
Molti hanno osservato che quelle foto felici su Facebook rappresentano uno schiaffo ai familiari di Vanessa; pure Massimo Gramellini ha scritto
Doina Matei ha tutto il diritto di essere contenta, visto che la legge glielo consente. Ma ha diritto di mostrare la sua contentezza al mondo, e quindi anche ai parenti della vittima, attraverso un social network?
Quelle immagini indignano e il moralismo non c’entra. Neanche il desiderio di vendetta. C’entra la sensibilità. C’entra che se ammazzi una persona, dovresti almeno avere il pudore di tenere per te le tue emozioni gioiose, senza ostentarle e tantomeno condividerle con chi patisce ancora le conseguenze del tuo delitto.
E al vicedirettore de La Stampa darei anche ragione, se solo quelle foto fossero state pubbliche, spiattellate sotto gli occhi di chiunque. Invece Doina Matei le aveva condivise nel suo profilo personale, usando peraltro uno pseudonimo al posto del nome vero, a beneficio della sua ristretta cerchia di amici. Ragionando con la testa anziché con la pancia, tutto questo non mi sembra poi così sbagliato, anzi.

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