Qualche giorno fa, tramite il giornalista Alessandro Milan, sono venuta a sapere che l'Alabama era in procinto di eseguire una condanna a morte con un metodo terrificante, peraltro mai sperimentato prima. Stamattina ho appreso che le mie tenui speranze di un dietrofront prima che avvenisse l'irreparabile (fermo restando che io dico sempre no alla pena di morte senza se e senza ma) erano state vane: il 58enne Kenneth Smith è morto per ipossia da azoto dopo un'agonia interminabile; non è stato affatto un trapasso rapido e indolore come qualcuno aveva voluto far credere. Ne ha parlato Luca Misculin all'inizio dell'odierno episodio del podcast Morning, e riporto qui di seguito la relativa trascrizione.
C'è una scena famosissima del primo film di Star Wars in cui il malvagio comandante della Morte Nera fa assistere la principessa Leia, capo dei ribelli che si oppongono all'Impero, alla distruzione del pianeta dove è cresciuta, Alderaan. Il pianeta viene colpito da un enorme raggio laser sparato proprio dalla Morte Nera, ed esplode davanti agli occhi di Leia. Il comandante le spiega che aveva bisogno di un pianeta dove sperimentare la potenza del raggio laser, ma non c'era alcuna necessità di uccidere milioni e milioni di persone, e farlo davanti a una che abitava sul loro stesso pianeta. Quella del comandante della Morte Nera è una dimostrazione di crudeltà che nell'impianto narrativo del film serve a mostrare quanto siano cattivi i cattivi, ma soprattutto quanto siano potenti. La Morte Nera è lo strumento di un potere dispotico e disumano che vuol far sapere a tutti cosa è disposto a fare per rimanere al suo posto. La crudeltà che dimostra, insomma, è sinonimo di potere.
Mi sembra che ci troviamo in una condizione paragonabile a quella di Leia quando leggiamo di condanne a morte eseguite in maniera brutale, come quella avvenuta poco fa nei confronti di Kenneth Eugene Smith, un uomo di 58 anni che era in carcere da più di 40 in Alabama per aver ucciso una donna di 45 anni, Elisabeth Sennett. Le autorità locali hanno ucciso Smith per azoto; in pratica gli hanno messo una mascherina sul naso e la bocca e gli hanno fatto inalare dell'azoto puro, fino a quando nei suoi polmoni l'azoto non ha sostituito completamente l'ossigeno, soffocandolo.
È stata la prima volta che un metodo del genere è stato messo in pratica negli Stati Uniti, dove da anni le sostanze per eseguire le condanne a morte per iniezione letale sono sempre più costose, e un precedente tentativo di uccidere in quel modo Smith era fallito; l'azoto invece è molto meno caro. E però la morte per inalazione di azoto è considerata una pratica paragonabile alla tortura dall'ONU e da diverse organizzazioni per i diritti umani; pensate che nemmeno l'associazione di categoria dei veterinari statunitensi la raccomanda per l'eutanasia di vacche o di cavalli.
Non sappiamo ancora esattamente cosa sia successo a Smith, ma si sa che la sua morte non è stata istantanea, e chissà cosa ha pensato in quei momenti.
Il corpo su cui è stata sperimentata questa pratica è quello di Smith, ma il messaggio è per tutti noi: ecco fin dove siamo disposti ad arrivare per mantenere l'ordine, la sicurezza e lo status quo. Se ci pensate, non siamo così lontani dalle impiccagioni pubbliche che si tengono ancora oggi in Iran o in altri regimi autoritari. Per fortuna l'Occidente non è un grande Alabama, anche se la Corte Suprema degli Stati Uniti ha avallato il metodo con cui è stato ucciso Smith in un giudizio emesso pochi minuti prima della sua morte. Secondo alcuni però queste manifestazioni e quelle concrete – accantoniamo Star Wars – nascondono qualcosa di più oscuro, e forse ancora più inquietante.
Ogni tanto ripenso a un articolo pubblicato sull'Atlantic nel 2018; lo ha scritto il giornalista e intellettuale Adam Serwer, si intitola Il punto è la crudeltà. Serwer racconta che a Washington il Museo Nazionale di Storia e Cultura Afroamericana ospita una mostra permanente di alcune foto scattate durante i linciaggi, le impiccagioni e le violenze contro i neri fra '800 e primo '900. L'elemento che più lo colpisce nelle foto, scrive Serwer, non sono i corpi bruciati o mutilati, ma le facce delle persone bianche visibili nelle foto. Scrive Serwer: nella foto del linciaggio di Thomas Shipp e Abram Smith nell'Indiana nel 1930 si vede un uomo rivolgere un ghigno verso l'obiettivo, mentre stringe teneramente la mano di quella che sembra sua moglie o la sua compagna; in un'altra foto non datata e scattata a Duluth in Minnesota, un gruppo di uomini sorride accanto a corpi mutilati e mezzi nudi di due uomini frustati in mezzo alla strada. Erano esseri umani, persone che provavano un immenso piacere nella gretta crudeltà di torturare a morte altri esseri umani: quella crudeltà li faceva stare bene, li rendeva orgogliosi, felici, e più legati l'uno all'altro. Gioire delle sofferenze altrui è più umano di quanto siamo disposti ad ammettere, scrive Serwer, che poi traccia un paragone fra quelle persone e i più accaniti sostenitori di Donald Trump, la cui comunità, scrive, è cementata dal gioire delle sofferenze di quelli che percepiscono diversi da loro, e che ha trovato in una crudeltà condivisa la risposta alla solitudine e alla frammentazione della vita contemporanea.
Ecco, leggendo Serwer mi vengono in mente diversi altri esempi più vicini a noi, con le dovute proporzioni ovviamente, di una crudeltà che rafforza i legami all'interno del gruppo umano che la pratica, o almeno quello sarebbe l'intento. La sindaca che escluse i bambini stranieri dalla mensa scolastica a Lodi, la proposta di eliminare il reato di tortura cosicché le forze di polizia abbiano libertà di azione assoluta, come ha detto qualche anno fa un ministro di questo governo [non ricordo di chi si trattasse, ma del resto l'attuale presidente del consiglio si è espressa a suo tempo in modo inequivocabile, NdC] – se ci pensate vuol dire la libertà di pestare arrestati e detenuti rimanendo impuniti – oppure il fatto che sul molo di Lampedusa, dove ogni anno arrivano migliaia di migranti, nessuna autorità pubblica porti dell'acqua o degli assorbenti; a questo ci pensa una ONG da anni. È tutto molto inquietante, di nuovo. Chissà poi, allargando lo sguardo, se in Occidente, se negli Stati Uniti finisce la saga di Star Wars oppure no.
Alla frase «Gioire delle sofferenze altrui è più umano di quanto siamo disposti ad ammettere» ho scosso il capo: io non sono così gretta, per carità. Però confesso che, come ho scritto su Threads, «Auguro a tutti coloro che sono soddisfatti di questa conclusione mica di morire allo stesso modo, ma solo di provare per un minuto, e potrebbe bastare anche qualche secondo, le sensazioni che deve aver provato quell'uomo. Poi ne riparliamo».
[La foto di Kenneth Eugene Smith che apre il post è tratta da questa pagina del Mirror che fa un resoconto dettagliato dell'agghiacciante vicenda]
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