È la vita, come si suol dire, rimanere ad un certo punto orfani; sicuramente più normale e naturale, nella sua tristezza, che veder morire un figlio. Proprio ieri una mia "facciamica" ha pubblicato un post in occasione di quello che sarebbe dovuto essere il ventunesimo compleanno del suo primogenito, spentosi pochi giorni poco la nascita; e ho percepito quel dolore atroce, quel senso di vuoto e di crudele ingiustizia come meglio non potrebbe chi, come me, una terribile esperienza del genere non l'ha vissuta in prima persona.
È la vita è il titolo di una commovente poesia che in questi giorni ho visto condivisa più volte sui social, e che è stata dedicata da Erri De Luca ai genitori che non ci sono più. Io che ho perso papà nel 2015 e mamma nel 2020 mi ci sono ritrovata parecchio; in alcuni punti (evidenziati in grassetto) nettamente di più, in altri un po' di meno.
Non ho madre né padre.
Pare ci sia un tempo regolamentare,
poi a un figlio non spettano più.
Lo chiamano È la vita.
Come spiegazione non mi basta.
Sono rimasto figlio, il padre di nessuno.
Da figlio vorrei qualche volta fare visita,
una telefonata, portare un regalo.
I loro compleanni
sono i giorni che guardo le fotografie.
Mi piacciono quelle con loro due giovani
e io neanche un’ipotesi.
Mi piace la loro vita prima del 1950.
Hanno una serietà ironia che non ho ricevuto.
Mi pento di avere dato via le loro scarpe.
Se tornano mi chiederanno conto
di non custodire la forma dei piedi,
la suola dei passi.
Quando li sogno non stanno più insieme,
vengono a turno in visita,
non parlano, si lasciano abbracciare.
Il tempo non mi abitua,
pure oggi è il giorno dopo
della separazione da quei due.
Solo quando mi succede un guaio
dico meglio così,
che non l’hanno saputo.
[L'immagine con la citazione attribuita a Emily Dickinson che apre il post è tratta da DiLei]
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