Di fronte a notizie come l'ergastolo ad Alessandro Impagnatiello per il femminicidio di Giulia Tramontano e a Filippo Turetta per il femminicidio di Giulia Cecchettin, è facile che la prima reazione "di pancia" sia: giusto così, certa gente merita di essere esclusa per sempre dalla società civile. Anche la mia mente è stata sfiorata da un simile pensiero, lo ammetto. Ma poi ho letto questo post di Alessandro Capriccioli, che per l'occasione ha annunciato di aver riesumato il suo blog Metilparaben (nome di un conservante) ormai praticamente dismesso, e mi ha dato da pensare. Ne riporto qui di seguito il testo, sorvolando per il momento sul fatto che nel nostro paese è assai poco frequente che il cosiddetto carcere a vita sia davvero "a vita": chissà che non offra a qualcun altro che passa di qui un importante spunto di riflessione.
“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
L’articolo 27 della Costituzione lascia poco spazio alla fantasia e all’interpretazione: le “pene”, tra cui il carcere, non hanno (soltanto) lo scopo di punire chi ha commesso un reato, ma dovrebbero (anche) perseguire il fine – assai più ambizioso – di “rieducarlo”.
Ora, al di là del fatto che il verbo possa piacere o non piacere (e a me non piace, perché lo trovo paternalista e in qualche modo riduttivo, ma questa è un’altra storia), e detto che in democrazia ci si può dichiarare in disaccordo perfino con la Costituzione (salvo il dovere di rispettarla, perlomeno finché non si abbiano la forza e i numeri necessari a modificarla), non appare inutile domandarsi cosa significhi “rieducare”, e soprattutto quali conseguenze logiche, oltre che giuridiche, la parola porti con sé.
Quanto al significato, secondo Treccani “rieducare” significa “educare di nuovo, correggendo i difetti provocati da una cattiva educazione o le deviazioni da una retta vita morale e sociale”. E fin qui, come si dice, nulla quaestio. Ma anche in relazione alle conseguenze, a ben guardare, mi pare che ci siano pochi dubbi: se correggere le devianze di un individuo ha un senso, quel senso non può che essere il suo reinserimento nella comunità, posto che se così non fosse la correzione sarebbe fine a se stessa, e perciò obiettivamente priva di qualsiasi utilità.
Con queste premesse, mi pare che in estrema sintesi le possibilità si possano ridurre a tre:
- si ritiene che la pena debba avere una mera funziona punitiva, finalizzata a infliggere sofferenza al reo: in tal caso l’ergastolo, in quanto castigo supremo (se si esclude la pena di morte), avrebbe un significato. Ma per concretizzare questo punto di vista, ossia per evitare che rimanga una farneticazione, chi lo sostiene dovrebbe sobbarcarsi l’onere di modificare la Costituzione;
- si ritiene (incidentalmente, questo è il punto di vista al quale aderisco con convinzione) che la pena debba avere una funzione rieducativa, finalizzata al recupero e al reinserimento del reo nella comunità: in tal caso l’ergastolo, in quanto per definizione preclusivo di detto rinserimento, non avrebbe mai alcun senso (e in effetti, a oggi, non ce l’ha, visto che questa è l’impostazione dettata dalla carta costituzionale);
- si ritiene che gli autori di determinati reati possano essere rieducati, mentre gli autori di altri reati debbano essere considerati non rieducabili; in tal caso l’ergastolo, se e nella misura in cui venga comminato ai rei non suscettibili di recupero, avrebbe significato in alcune circostanze e in altre no. Per scongiurare l’eventualità che questa convinzione rimanga una farneticazione ancora più surreale della prima, chi la coltiva dovrebbe poter dimostrare scientificamente (non a chiacchiere, non in base alla propria opinione personale, non per averne discusso a cena con gli amici) che i responsabili di certi delitti gravissimi siano effettivamente non risocializzabili, contrariamente ai responsabili di altri delitti gravissimi che invece lo sono.
Al di fuori di queste tre ipotesi non c’è niente, benché talora, sulla spinta emotiva di fatti di cronaca particolarmente odiosi o raccapriccianti, si coltivi istintivamente la tentazione dell’eccezione, la quale tuttavia è di per sé così scivolosa da sconsigliare l’arrampicata anche ai professionisti degli specchi.
Parafrasando un noto adagio latino, quartum non datur. Tutto il resto, ossia il quartum, fa parte dei discorsi da bar; o per meglio dire da social, i quali sono ormai diventati peggio dei bar.
Se non altro perché nei bar, perlomeno, mentre si parla del più e del meno si può ordinare qualcosa da bere.
Nessun commento:
Posta un commento