venerdì 5 luglio 2019

Vivere dietro le sbarre

Quando qualcuno viene colto in flagranza di reato, è naturale augurarsi che finisca in galera. Se il crimine è particolarmente odioso, come le violenze contro i bambini, i più intransigenti – per usare un eufemismo – auspicano addirittura la pena di morte, che per quanto mi riguarda non ammetto in nessun caso. Se invece si tratta di un "semplice" omicidio, ci si limita a invocare una pena adeguata: esemplare in tal senso il caso – del quale si è tornati a parlare proprio in questi giorni – di Antonio Ciontoli, condannato in appello a soli cinque anni di reclusione per l'omicidio colposo di Marco Vannini, fidanzato della figlia Martina. Una pena giudicata dall'opinione pubblica decisamente troppo mite, soprattutto per via della ricostruzione dell'accaduto che è emersa.
A tal proposito, capita a fagiuolo il link a un articolo che personalmente non mi ha convinta fino in fondo, ma che comunque mi ha fatto riflettere: Il carcere non va invocato: va abolito.
La galera non sempre – per non dire quasi mai – è un luogo di vera redenzione: non di rado chi viene rilasciato torna a dedicarsi al crimine come e più di prima. Ma ci sono delle eccezioni: ho letto la lettera in cui Roberto Formigoni, l'ex presidente della regione Lombardia condannato (a suo dire ingiustamente) a 5 anni e 10 mesi di reclusione per corruzione, racconta la sua esperienza di detenzione nel carcere di Bollate, e devo ammettere che, anche se non ho mai nutrito particolare stima o simpatia per quell'uomo, e dubito che cambierò opinione in modo drastico sul suo conto, sono rimasta favorevolmente impressionata dalle sue parole.

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