Di primo acchito la notizia della scarcerazione del mafioso Giovanni Brusca, il quale ha finito di scontare 25 anni di prigione potendo usufruire di uno sconto di pena in quanto pentito, ha suscitato il mio sdegno. Ma come, il feroce assassino che ha confessato di aver brutalmente strangolato e sciolto nell'acido l'undicenne Giuseppe Di Matteo per vendetta nei confronti del padre, "reo" di aver collaborato con la giustizia? L'individuo che ha decine e decine di morti sulla coscienza, tra le quali quella di Giovanni Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo e degli agenti di scorta saltati in aria a Capaci?
Ebbene, fu proprio il giudice Falcone a volere la legge alla quale oggi Brusca deve la libertà.
A tal proposito riporto il post di Ciro Pellegrino...
È difficile restare indifferenti davanti alla notizia: il mafioso Giovanni #Brusca è libero.
Il fedele uomo di Riina, oggi collaboratore di giustizia, nel corso degli anni ha ammesso di essere stato coinvolto nella strage di Capaci e nell'uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo.
Oggi Brusca ha scontato la sua pena, 25 anni di carcere.
Ero adolescente quando ci furono le stragi di mafia: alla luce di quelle vicende e di ciò che ne conseguì ho formato la mia coscienza civile , il mio "stare al mondo" da cittadino.
Sapere che #GiovanniBrusca è libero scatena in me sentimenti di rabbia diversi e contraddittori: sono arrabbiato con me stesso perché vorrei saperlo marcire in gabbia e al tempo stesso sono arrabbiato con me stesso perché so che le leggi e le fine pena valgono per tutti, anche per i mafiosi.
... e quello di Lorenzo Tosa.
Sì, certo, fa impressione vedere Giovanni Brusca, detto “O scannacristiani”, uscire a 64 anni, dopo 25 anni di carcere, nonostante 150 omicidi commessi e ammessi, la strage di Capaci e un bambino sciolto nell’acido. Chi non ha un sussulto, un moto spontaneo di rabbia e repulsione fisica, o non ha cuore o non conosce la storia degli ultimi 30 anni di mafia in questo Paese. Oppure entrambe le cose.
Poi c’è la ragione. Che, quando si parla di mafia, è infinitamente più utile ed efficace di qualsiasi moto viscerale o di pancia da cui nessuno, forse, è in salvo.
Ed è quella ragione che ti consente di fare un salto indietro di 30 anni esatti al 15 gennaio del 1991 quando Giovanni Falcone - non uno che passava di lì per caso - intuì per primo che, per far fare un salto di qualità all’antimafia, era necessario introdurre un sistema “premiale” per i collaboratori di giustizia, che fino a quel momento esisteva solo per i terroristi. Tra coloro che successivamente si avvalsero di quella legge ci fu anche Giovanni Brusca, che per quasi due decenni contribuì in modo diretto o indiretto a far arrestare un numero imprecisato di mafiosi a ogni livello e a svelare per la prima volta rapporti tra mafia, politica e imprenditoria oggi considerati scontati.
Senza quell’intuizione di Falcone, non solo Brusca non avrebbe mai parlato, ma, come lui, quasi nessuno degli oltre mille collaboratori di giustizia che hanno contribuito a cambiare radicalmente la storia della lotta alla mafia in Italia.
Senza quello sconto di pena che comprensibilmente turba le nostre coscienze, oggi Giovanni Brusca sarebbe in carcere a Rebibbia a scontare un ergastolo senza scomodare la rabbia e l’indignazione di nessuno, ma fuori ci sarebbero decine, centinaia di mafiosi in più a piede libero e le nostre conoscenze delle dinamiche di Cosa nostra sarebbero infinitamente più arcaiche e primordiali.
È persino superfluo, e per certi versi improprio, ricordare l’articolo 27 della Costituzione, secondo cui “le pene (...) devono tendere alla rieducazione del condannato”.
La domanda qui non è se Giovanni Brusca potrà mai essere recuperato come cittadino.
La domanda da farsi è se vale di più la ripugnante libertà (vigilata) ad una bestia pluriomicida o le vite e le atrocità che abbiamo salvato e risparmiato in cambio di quella libertà.
Questa è la sola e unica domanda che abbia senso farsi oggi. E occorre anche il coraggio - e la razionalità - per dare una risposta.
Gridare allo scandalo e alla vergogna nazionale è comprensibile, ma è anche per certi versi miope e, in fin dei conti, pericoloso, perché rimette in discussione uno dei principi cardine - forse IL principio cardine - della lotta alla mafia negli ultimi 30 anni, per cui uomini come Falcone e Borsellino hanno dato la vita.
Si chiama legge, ed è quello che più ci allontana e ci preserva dalla barbarie che uno come Giovanni Brusca ha rappresentato e rappresenterà sempre.
E lo ha ricordato proprio Maria Falcone, sorella di Giovanni, con una dignità e parole infinitamente più forti e coraggiose di quelle che potrei usare io.
“Umanamente è una notizia che mi addolora” ha detto, “ma questa è la legge, una legge che peraltro ha voluto mio fratello. E quindi va rispettata.”
Guido Saraceni aveva usato termini di segno tendenzialmente opposto, esprimendo il proprio dissenso nei confronti del fatto che chi si è macchiato di delitti così atroci possa godere di qualsivoglia beneficio. Mi sembrava comunque un punto di vista da prendere in considerazione, provenendo da un professore di filosofia del diritto, ma il post è sparito prima che potessi copiarlo, suppongo in seguito al divampare delle polemiche.
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