Da circa un anno a questa parte si parla un sacco di cancel culture, ossia – cito da Wikipedia – «una forma moderna di ostracismo nella quale qualcuno o qualcosa diviene oggetto di indignate proteste e di conseguenza rimosso oppure estromesso da cerchie sociali o professionali - sia online sui social media, che nel mondo reale, o in entrambi». Una delle conseguenze più deleterie è la distruzione di monumenti e altre vestigia storiche: «Dopo la morte di George Floyd avvenuta il 25 maggio 2020 si sono registrati (particolarmente negli Stati Uniti e nel Regno Unito) numerosi episodi di iconoclastia volti a rimuovere statue o monumenti considerati simboli di un passato razzista e schiavista».
Ti lascio con due spunti per approfondire la questione: lo spiegone del sempre ottimo Il Post, e l'intervento dello storico e divulgatore nonché icona pop Alessandro Barbero, uno che se ce l'avessi avuto come prof di Storia al liceo mi sarei appassionata sicuramente di più alla materia. La mia insegnante del triennio non era affatto male, anzi, ma mi sembrava fin troppo sbilanciata sull'attualità, e non parlo del XX secolo – quando ho dato l'esame di maturità mancava ancora qualche anno al Duemila – ma proprio dell'epoca contemporanea; ha avuto senza dubbio un ruolo determinante nella formazione della mia coscienza politica, questo sì.
Eppure c’è qualcosa che non mi torna nella cancel culture: da una parte sembra essere un movimento spontaneo di pressione politico/culturale popolare da un’altra però i suoi bersagli sono limitati e circoscritti: tipo singoli libri e autori.
RispondiEliminaPerché non vengono adottate queste forme di protesta contro le diseguaglianze economiche o contro lo sfruttamento di alcuni lavoratori?
Ecco allora che mi viene il sospetto che in realtà la cancel culture sia pilotata per attaccare bersagli inoffensivi, irrilevanti o quasi: un mezzo per distrarre e dare invece l’illusione che la propria voce valga e vanga ascoltata...