Al risveglio stamattina ho dato come di consueto una scorsa alla mia timeline di Facebook, e mi sono imbattuta nel post pubblicato poche ore prima da Salvatore Savasta, lo scrittore (anche se continua a lavorare come portiere di notte per mantenere la sua famiglia) che di recente ha pubblicato il thriller Il marchio di Medusa, e che nel libro precedente Il mostro sotto il letto aveva raccontato la propria esperienza di padre di una bambina affetta da una malattia genetica rara. Il post è una quanto mai vibrante lettera aperta rivolta al filosofo Umberto Galimberti.
Egregio Professor Galimberti, le scrivo da una frontiera.
Non una di quelle immaginarie, tracciate sulle carte dai potenti, ma una di carne e nervi, di notti insonni e mani stanche: la frontiera dove si cresce una bambina con una sindrome genetica ultra rara. Un nome complicato, un destino complicato. Eppure, se la vedesse, lei la confonderebbe con un miracolo.
Mi sono interrogato a lungo, pensando se fosse il caso di scriverle una lettera aperta.
Perché, vede, anche solo nominarla mi è causa di forte turbamento.
Dopo averci pensato per giorni, mi sono detto che invece è il caso di scriverle, perché questo nostro mondo sta prendendo una strana deriva e comincio seriamente a pensare che questa sia anche causa dei silenzi. È causa del fatto che qualcuno ci ha insegnato che dove l'idiota parla, l'intelligente tace.
Però, e sono certo che lei da buon filosofo mi comprenderà, comincio a credere che se questa società permette agli idioti di parlare alle masse è perché nessuno, tra gli intelligenti, ha scelto di scendere al loro livello per sussurrare ad un orecchio: taci, idiota.
Per citare un noto maestro: "A uno stronzo non puoi dire stupidino. Gli devi dire che è stronzo, altrimenti gli stai dando un'illusione".
Mi perdoni l’irruenza, non ho il tempo né il privilegio di indossare guanti bianchi quando stringo il cuore tra le dita.
Qualche giorno fa, durante un suo intervento, lei ha affermato, con l’autorità di chi ha smesso da tempo di ascoltare, che la scuola è diventata una clinica psichiatrica. Ha snocciolato diagnosi come fossero patacche sul petto di un esercito in disfatta: disgrafici, dislessici, Asperger, autistici… e poi quel “chi l’ha detto?!?” lanciato come una sassata contro chi, come mia figlia, vive ogni giorno dentro una lotta silenziosa eppure potentissima.
L’ha detto la scienza, Professore.
L’ha detto la neuropsichiatria, la pedagogia, la genetica, la medicina.
Lo dicono gli occhi di mia figlia quando fissano il mondo come se fosse un puzzle da ricomporre senza avere il disegno sulla scatola.
Lei, però, ha deciso di non ascoltarli.
Ha deciso che l’insufficienza non è il sintomo, ma la colpa.
Che la fatica è un’invenzione. Che il disagio è una scusa.
E ha affermato, senza tremare nella voce anzi, tra gli applausi, che i genitori si procurano “una bella ricetta dal medico” solo per regalare ai figli “un percorso facilitato”.
Venga con me, Professore.
Una sola giornata. Una.
Le faccio vedere com’è quel percorso facilitato. Le faccio sentire l’eco dei corridoi di una neuropsichiatria infantile.
Le faccio leggere i referti, quelli con le parole che non sai mai come pronunciare davanti a tua moglie.
Le faccio tenere mia figlia sulle ginocchia cercando per ore di spiegarle che L più A si legge LA, mentre ti chiedi se è colpa tua. Se hai sbagliato qualcosa. Se esiste un metodo, uno qualsiasi, che le permetta di imparare a comprendere che quei segnetti scritti a matita si chiamano lettere.
Lei dice: “Ai miei tempi non c’erano tutte ste cavolate”.
Ma ai suoi tempi, caro Professore, i bambini venivano messi dietro, zittiti, umiliati, raddrizzati a schiaffi.
Lei stesso si vanta del fatto che la sua insegnante le ha rotto il naso schiaffeggiandola con l'anello che il marito le ha regalato di rientro dalla Libia.
Lei fa parte di quella generazione che con convinzione scrive su Facebook: "Quelli che imparavano tutto usando solo due libri".
Vuole la verità? Se il risultato di quella generazione è stata dare a lei l'epiteto di filosofo, è evidente che abbiate studiato tutto su due libri.
Perché vivere l’orrore e non riconoscerlo è peggio che ignorarne l’esistenza. È tradimento. È complicità.
È come se Levi, piuttosto che "Se questo è un uomo", avesse scritto "Ai miei tempi si andava in giro con un pigiama a righe e si stava più comodi".
I bambini di cui parla senza alcun diritto, ai suoi tempi venivano chiamati “ritardati”, “scemi”.
E molti di loro sparivano nel silenzio di scuole che non li volevano, di famiglie che non sapevano, di società che non li vedevano.
Noi oggi li chiamiamo per nome.
E lottiamo perché abbiano il loro posto.
Non un posto speciale, la "scorciatoia voluta dai genitori", come la chiama lei.
Il loro posto.
E dato che ha 82 anni, le dico con il rispetto che si deve agli anziani e con la fermezza che si deve ai figli: forse è giunto il tempo di sedersi davvero al bar, se proprio vuole continuare a fare chiacchiere da bar.
Perché sopra un palco, Professore, le parole non pesano solo quanto la sua opinione.
Pesano quanto il futuro dei nostri figli.
E per mia figlia, io quel futuro me lo strappo a morsi.
E se qualcuno pensa che sia troppo duro, troppo emotivo, troppo scorretto…
Che venga anche lui, una giornata sola.
A camminare accanto a noi, nelle nostre "scorciatoie".
Con la ferocia educata di chi non si arrende,
mi faccia una cortesia: scelga il silenzio, che è la forma più nobile di pensionamento.
Io delle esternazioni del professor Galimberti non sapevo nulla, ma stamattina, ascoltando gli arretrati del podcast Amare parole mentre andavo al lavoro, ho scoperto che Vera Gheno ne aveva parlato nell'episodio del 16 marzo scorso (del quale si può ascoltare una parte qui su Spotify, mentre l'ascolto dell'episodio integrale è riservato a noi abbonati a Il Post). Fra i contenuti menzionati è linkato anche un articolo che contiene il video dell'intervento incriminato. E niente, di fronte a una posizione così indifendibile da parte di Galimberti non posso che appoggiare la richiesta di Salvatore Savasta.
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