Uno degli argomenti di discussione che hanno caratterizzato la settimana di Sanremo è stato la richiesta da parte dell'ospite della quarta serata Beatrice Venezi, la quale all'età di soli trentun anni ha già diretto numerose orchestre importanti, di non essere chiamata "direttrice" perché «la posizione, il mestiere ha un nome preciso e nel mio caso è quello di direttore d’orchestra». Interpellato al riguardo, Claudio Marazzini, presidente dell'Accademia della Crusca, ha spiegato che la volontà di Venezi di farsi chiamare direttore è legittima, ma ha una motivazione errata linguisticamente.
(La vignetta è di Giuseppe La Micela)
Riporto qui di seguito per intero il post di Alessandro Capriccioli, perché mi pare che illustri la questione in modo molto esauriente.
Dopodiché, a parte i tiramenti personali e le sensazioni soggettive di "cacofonia" (scusate se insisto, ma penso che la questione meriti), c'è un aspetto di questo dibattito sulle professioni declinate al femminile sul quale anche i commentatori più accaniti continuano a glissare, evidentemente perché non gli fa tornare i conti dello schema mentale che si sono costruiti.
Se fosse vero che i nomi dei mestieri non si devono declinare, cosa che in molti continuano a sostenere con una certa ostinazione, perché la regola dovrebbe valere solo in certi casi e in altri no? Perché, in altre parole, dovrebbe essere evitato l'utilizzo di parole come "direttrice", "ministra" e "primaria" mentre continuano a essere comunemente accettate parole come "cameriera", "commessa" e "contadina"?
La risposta mi pare molto semplice, e non ha nulla (ma proprio nulla) a fare con la grammatica: accettiamo di buon grado le declinazioni al femminile cui siamo più abituati, perché le donne svolgono quei lavori da più tempo e con maggiore frequenza, mentre ci sembrano (ma non lo sono) "sbagliate" quelle che abbiamo sentito poco, perché si riferiscono a professioni alle quali le donne si sono affacciate solo recentemente e dunque, semplicemente, non ci "suonano".
Provate a fare mente locale: perché nessuno si meraviglia del fatto che si usi la parola "maestra" mentre molti reputano inesatta la parola "ministra"? Perché la prima è grammaticalmente corretta e la seconda no? Se così fosse, ne converrete, bisognerebbe essere in grado di spiegare in modo puntuale (non a occhio, a spanne, a orecchio) la ragione, cioè la regola, che sta alla base di questa supposta differenza. Oppure il punto, molto più semplicemente, è che le donne insegnano alle scuole elementari da decenni, durante i quali ci siamo abituati a sentire la parola che le indica, mentre solo di recente (e con minore frequenza rispetto agli uomini) hanno iniziato a essere nominate alla guida di un ministero?
È lo stesso principio, fateci caso, in base al quale dopo l'elezione di Virginia Raggi molti sostennero (non si capisce in base a quale ragionamento) che la parola "sindaca" fosse scorretta, senza considerare il vero motivo dell'apparente errore: si trattava della prima volta in assoluto che una donna veniva eletta alla guida della capitale, e dunque "sindaca" era una parola alla quale non eravamo abituati, semplicemente perché non c'era mai stato motivo di usarla.
Dunque, ricapitoliamo: affermare che le professioni si declinano solo al maschile in base a una sua presunta valenza "neutra" è sbagliato (per le parole che in italiano si declinano, naturalmente, abbiate la decenza di non citare come esempio "oculista") dal punto di vista grammaticale, mentre sostenerne l'opportunità sulla scorta di una supposta "cacofonia" della declinazione femminile è semplicemente il risultato di una scarsa abitudine alla parola.
Quello che rimane, sgomberato il campo da questi equivoci, è un elemento evidentemente tutto politico: la tendenza, consapevole o no (e mi permetto di aggiungere che i casi di incosapevolezza sono forse più problematici degli altri), a contenere nell'ambito del "maschile" le professioni più qualificate, sulla scorta del fatto che storicamente esse sono appartenute in modo pressoché esclusivo agli uomini e solo di recente, salvo alcuni casi particolari che si contano sulle dita di una mano, iniziano a esser esercitate anche dalle donne.
Un'ultima considerazione, che mi pare opportuno esplicitare per rispondere a chi "la butta in caciara" utilizzando l'estrema ratio del benaltrismo: è ovvio che la questione lessicale non esaurisce il problema. È ovvio, tanto per capirci, che dire "architetta", "consigliera" o "deputata" non è di per sé sufficiente a fare in modo che vi siano più architette, più consigliere e più deputate. È ovvio, insomma, che per fare in modo che ciò avvenga occorrono soprattutto politiche, riforme e strumenti concreti. Ma dove avete letto, da cosa desumete, in base a cosa ritenete che chi si sofferma con un minimo di attenzione sul tema delle parole lo ritenga sufficiente a esaurire e risolvere la questione della parità di genere? Avete considerato l'ipotesi che ci si possa occupare dell'una e dell'altra cosa? O, per dirla meglio, che magari non sempre, ma perlomeno spesso, sia proprio chi si occupa dell'una a cercare di dare una mano anche sull'altra?
Fatemi sapere.
Per quanto mi riguarda, ricordo che fino a non molto tempo fa a me, che sono laureata in ingegneria, il termine "ingegnera" suonava male. Ma poi ho appunto capito che era semplicemente questione di abitudine: in fondo "ingegnere" sta ad "ingegnera" esattamente come "infermiere" sta ad "infermiera", solo che su quest'ultimo termine nessuno ha mai nulla da ridire... forse, ma forse, perché quello di assistere ed accudire è visto da sempre come un compito femminile? (Comunque se qualcuno mi chiama ingegnere mi sento troppo in imbarazzo a ribattere «Ingegnera, prego»)
Infine, tanto per restare più o meno in argomento, colgo l'occasione per ricordare un eccellente monologo di Paola Cortellesi che prende spunto da fatto che nella nostra lingua il significato di certi termini cambia radicalmente se li si declina al femminile anziché al maschile.
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