Per quanto riguarda il lavoro, è dal 24 febbraio che sono in smart working. A differenza di quasi tutti i miei colleghi non ho mai rimesso piede in ufficio da allora, perché troppa è la paura di contrarre il coronavirus nel lungo tragitto che devo percorrere sui mezzi pubblici per arrivarci, ma per i miei superiori sembrava tutto OK.
Giovedì sera, come un fulmine a ciel sereno... vabbè, non proprio sereno, arriva dagli USA un'e-mail con tanto di video nel quale il CEO megagalattico supremo annuncia con aria vagamente contrita importanti tagli al personale a livello globale. Trascorso un weekend che definire teso significa usare un pallido eufemismo, stamattina la mia "capa" – siccome sono un tipo empatico non avrei mai voluto trovarmi nei suoi panni – mi informa che io sono una delle "teste" che verranno "tagliate"; chi siano le altre lo si saprà soltanto dopo che ne sarà stata data comunicazione a tutti gli interessati. Dal momento che è stato prorogato il blocco dei licenziamenti, l'azienda dovrà tenermi in organico fino al 31 marzo prossimo. E l'unica motivazione che in questi cinque mesi mi impedirà di lasciarmi andare sarà il mio insopprimibile senso del dovere (oltre alla buonuscita, ma avrei preferito di gran lunga tenermi il posto).
Peccato, perché ho dato tutta me stessa in questi (quasi) due anni e mezzo, ma evidentemente non è stato abbastanza. Me ne rendo conto da me che avrei potuto fare di più, ma purtroppo il mio perfezionismo e la mia dannata insicurezza mi hanno fregata, impedendomi di affrontare le sfide più impegnative e qualificanti.
(La vignetta che apre il post è di Silvia Ziche)
:(
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