Ieri sera poco prima di andare a dormire mi sono imbattuta nella notizia della scomparsa della scrittrice e intellettuale Michela Murgia. Anche se mi aspettavo che si trattasse di un'eventualità tutt'altro che remota, ciononostante sono stata assalita da un profondo senso di smarrimento.
Oggi ho letto moltissime commemorazioni, alcune notevoli, di persone che l'avevano conosciuta in maniera più o meno approfondita di persona, oppure solo indirettamente tramite i suoi scritti (riguardo ai quali per quanto mi riguarda devo riconoscere enormi lacune, che comunque mi riprometto di colmare almeno in parte appena possibile)... ma io mi limito a ricordarla riportando i passaggi chiave dell'intervista rilasciata ad Aldo Cazzullo del Corriere che avevo linkato quando ho parlato della sua infausta diagnosi.
Lei scrive: «Carcinoma renale al quarto stadio». Non ci sono speranze?
«Dal quarto stadio non si torna indietro».
Il personaggio del suo libro però non vuol sentir parlare di «lotta» contro il male. Perché?
«Perché non mi riconosco nel registro bellico. Mi sto curando con un’immunoterapia a base di biofarmaci. Non attacca la malattia; stimola la risposta del sistema immunitario. L’obiettivo non è sradicare il male, è tardi, ma guadagnare tempo. Mesi, forse molti».
Cosa intende per registro bellico?
«Parole come lotta, guerra, trincea... Il cancro è una malattia molto gentile. Può crescere per anni senza farsene accorgere. In particolare sul rene, un organo che ha tanto spazio attorno».
Non può operarsi?
«Non avrebbe senso. Le metastasi sono già ai polmoni, alle ossa, al cervello».
Michela, lei sta dicendo una cosa terribile con una serenità che mi impressiona.
«Il cancro non è una cosa che ho; è una cosa che sono. Me l’ha spiegato bene il medico che mi segue, un genio. Gli organismi monocellulari non hanno neoplasie; ma non scrivono romanzi, non imparano le lingue, non studiano il coreano. Il cancro è un complice della mia complessità, non un nemico da distruggere. Non posso e non voglio fare guerra al mio corpo, a me stessa. Il tumore è uno dei prezzi che puoi pagare per essere speciale. Non lo chiamerei mai il maledetto, o l’alieno».
L’alieno lo chiamava Oriana Fallaci.
«Ognuno reagisce alla sua maniera e io rispetto tutti. Ma definirlo così sarebbe come sentirsi posseduta da un demone. E allora non servirebbe una cura, ma un esorcismo. Meglio accettare che quello che mi sta succedendo faccia parte di me. La guerra presuppone sconfitti e vincitori; io conosco già la fine della storia, ma non mi sento una perdente. La guerra vera è quella in Ucraina. Non posso avere Putin e Zelensky dentro di me. Non avrei mai trovato le energie per scrivere questo libro in tre mesi».
La morte non le pare un’ingiustizia?
«No. Ho cinquant’anni, ma ho vissuto dieci vite. Ho fatto cose che la stragrande maggioranza delle persone non fa in una vita intera. Cose che non sapevo neppure di desiderare. Ho ricordi preziosi».
[...]
Nel capitolo finale la protagonista è già morta, e la sorella appende alle querce da sughero i suoi vestiti, affinché ogni persona cara possa portarne via uno...
«Quella scena c’è stata: nel giugno scorso ho compiuto cinquant’anni e ho appeso alle querce cinquanta vestiti. In questo tempo ho avuto modo di preparare tutto. Scrivere un alfabeto dell’addio. Predisporre un percorso collettivo. Tanti dicono di voler morire all’improvviso, nel sonno, senza accorgersene. Ora ho capito perché mia nonna da piccola mi faceva recitare una preghiera contro la morte improvvisa».
Perché?
«Il dolore non si può cancellare; il trauma sì. Si può gestire. Hai bisogno di tempo per abituare te stessa e le persone a te vicine al transito. Un tempo per pensare come salutare chi ami, e come vorresti che ti salutasse. Io non sono sola. Ho dieci persone. La mia queer family».
Come tradurrebbe queer family?
«Un nucleo familiare atipico, in cui le relazioni contano più dei ruoli. Parole come compagno, figlio, fratello non bastano a spiegarla. Non ho mai creduto nella coppia, l’ho sempre considerata una relazione insufficiente. Lasciai un uomo dopo che mi disse che sognava di invecchiare con me in Svizzera in una villa sul lago. Una prospettiva tremenda».
[...]
Come vorrebbe essere ricordata?
«Ricordatemi come vi pare. Non ho mai pensato di mostrarmi diversa da come sono per compiacere qualcuno. Anche a quelli che mi odiano credo di essere stata utile, per autodefinirsi. Me ne andrò piena di ricordi. Mi ritengo molto fortunata. Ho incontrato un sacco di persone meravigliose. Non è vero che il mondo è brutto; dipende da quale mondo ti fai. Quando avevo vent’anni ci chiedevamo se saremmo morti democristiani. Non importa se non avrò più molto tempo: l’importante per me ora è non morire fascista».
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