sabato 23 settembre 2017

È il caso di condividere proprio TUTTO sui social?

Mi ha turbata moltissimo la notizia della morte della quindicenne Nicolina Pacini di Ischitella (FG), che i medici non sono riusciti a salvare dopo che Antonio Di Paola, il violento ex compagno della madre Donatella Rago, le ha sparato in piena faccia (in seguito si è tolto la vita, il vigliacco). L'uomo non dava tregua alla ragazzina perché voleva sapere dove si trovasse sua madre – la quale si era rifugiata a Viareggio, dove vive l'ex marito, mentre la figlia era rimasta a Ischitella, affidata ai nonni materni – ma Nicolina si è sempre rifiutata di rivelarglielo; forse è stata proprio questa sua tenacia nel voler proteggere la madre a costarle la vita.
Ma sono rimasta sconcertata vedendo i post pubblicati da Donatella Rago subito dopo il fatto di sangue, quando la figlia lottava ancora tra la vita e la morte, e poi quando è stato trovato il corpo del suo ex compagno suicida.


Francamente mi sfuggono i meccanismi psicologici in base ai quali una madre alla quale è appena tragicamente morta la figlia – una morte della quale lei dovrebbe sentirsi non certo colpevole, ma sia pur indirettamente responsabile, questo sì – si mette a scrivere su Facebook, e scrive certe cose. A quanto pare ha concesso pure delle interviste televisive, ma quelle me le sono perse.
Ognuno ha il suo modo personale di reagire al dolore, qualcuno vorrà obiettare. In ogni caso preferisco non sbilanciarmi ulteriormente né tantomeno giudicare, ma mi limito a riportare due opinioni che trovo piuttosto interessanti e condivisibili: la prima la espone Selvaggia Lucarelli in un post...
Il tuo ex spara in faccia a tua figlia quindicenne, l'ammazza e tu trovi il tempo e la voglia di scrivere anatemi su Facebook e rilasciare interviste a Mattino 5.
E allora penso ai genitori di Yara. Mai una frase ad effetto a favore di telecamera, mai un'intervista, mai una parola rabbiosa nei confronti dell'assassino della figlia.
Solo poche parole limpide e piene d'amore per la figlia, che il papà pronunciò in aula (e solo in aula), ben 5 anni dopo la morte di Yara, nel 2015: "Era il collante, il sale della nostra famiglia, ogni cosa la faceva con una capriola, una giravolta. Era sempre allegra e sorridente: era il prezzemolo della nostra famiglia, Yara era la mascotte di casa".
Ecco, i figli si amano anche così. Anche dopo. Avendo cura del loro ricordo, rifiutando l'idea che sulla loro faccia finisca la banda "esclusiva".
E scusate, ma tra annunci di confessioni del figlio annunciate in diretta, sceneggiate pugliesi, madri che si sfogano su Facebook col corpo della figlia ancora caldo, in questi giorni l'umanità mi fa più orrore del solito.
... mentre la seconda Michele Serra in un articolo (non altrettanto conciso) di Repubblica.
La popolarità del Male, rispetto alla sua banalità, è uno stadio più avanzato in direzione della sua metabolizzazione e, direbbe un pessimista, del suo trionfo. Il Male, nell'evo della comunicazione globale e capillare, dei network e dei social, è una dimestichezza da ostentare, è un linguaggio da padroneggiare. Nessuno arretri, nessuno si faccia trovare impreparato o muto, atterrito o vinto, di fronte al Male. Gli faranno un selfie, molto presto, al Male, posando accanto a lui come accanto a Messi o a Lady Gaga.
La sfortunata madre della povera ragazza Nicolina ha concesso una lunga e quasi ciarliera intervista a una trasmissione Mediaset del mattino mentre la figlia agonizzava in ospedale, colpita in faccia (in faccia!), mentre andava a scuola, dalle pistolettate di un ex fidanzato di mamma, uno dei tanti ributtanti maschi omicidi (e poi suicidi) che non tollerando di essere lasciati da una femmina soffocano l'onta nel sangue.
Non si pretendono, dalla gente semplice, i toni della tragedia greca. Ma la gente semplice, fino a non tanti anni fa, sapeva ammutolire. Chiamatelo pudore, dignità, vergogna, chiamatelo come preferite, ma quando la voce del dolore rimaneva chiusa nelle stanze dei disperati, il Male non mieteva un successo così corale, e non trovava inserzionisti pubblicitari, già al mattino presto, disposti a cavalcarlo.
Il crocchio dei curiosi, e tanto più il lutto delle vittime, rimanevano confinati in una dimensione di bisbiglio o di pianto o di scoramento inerte (quando si diceva: "Non ha più neanche le lacrime per piangere"). Qui ora, nel caso di questo ultimo delitto atroce (uccide per vendetta la figlia adolescente della donna che non riesce a rintracciare per ucciderla...), ma anche di molti altri, c'è intanto da rintracciare, alle spalle dell'evento, l'immancabile "dietro le quinte" delle paginette Facebook dei protagonisti, che a leggerle dopo quello che è successo, signora mia, già lasciano capire come sarebbe andata a finire.
E spesso, effettivamente, traboccano odio, ignoranza e vanità (che non sono colpe, no, ma neanche bandierine da sventolare online), come per preparare il terreno all'arrivo, a cose fatte e a cadavere caldo, delle telecamere e dei microfoni, fratelli maggiori che hanno fatto carriera. Anche loro, in fin dei conti, "social media", per giunta di calibro infinitamente maggiore, e padroneggiati da veri professonisti nella zoomata sulla piaga, della catalogazione del Male a seconda della sua telegenia.
Non si dubita che quella povera madre pugliese fosse sotto choc. Chi non lo sarebbe. Resta da capire come mai le persone sotto choc (non solo lei: parlo dell'abbondante cast di vittime e protagonisti di delitti efferati, che alle interviste neanche si sognano di sottrarsi) si consegnino con tanta naturalezza ai palinsesti.
Eravamo rimasti alle persone sotto choc che crollano o fuggono o smaniano, quando era ancora impensabile che diventassero docili ingredienti delle infernali cucine della televisione del dolore: che sarebbe ora di chiamare in modo diverso, perché di doloroso ha veramente poco, la televisione del dolore.
La popolarità del male è uno stato d'animo a suo modo spigliato, di mondo, si parla della morte degli ammazzati, e dei delitti degli assassini, con un tono appena compunto, però dinamico e informato, senza trasalimenti, senza esitazioni o silenzi, senza arretrare di fronte ad alcunché, ci sono scalette da rispettare così come, su Facebook, ci sono controinsulti e controminacce da digitare in fretta, a raffica, colpo su colpo. Ha ritmo, ha passo spedito, la popolarità del male, Dostoevskij ci metteva duecento pagine per dire le stesse cose che si possono dire in trenta secondi di televisione, o in dieci parole sullo smartphone.
Nicolina nel frattempo se ne è andata. Ci aspettano i reperti - parole e immagini - della sua breve vita, spremuti dalle sue chat. Anche le vittime, malgrado spariscano dalla faccia della terra, sono scritturate a vita. Se ragazzine graziose e innocenti, poi, allora è il massimo.

Nessun commento:

Posta un commento