venerdì 3 marzo 2023

Lavorare per vivere, o vivere per lavorare?

Dalla fine di gennaio Michele Serra ha iniziato a collaborare sistematicamente con Il Post curando una newsletter settimanale dallo scherzoso titolo Ok Boomer! – se non conosci il significato di questo modo di dire, è abbastanza probabile che tu sia un boomer, almeno in senso lato ;-) – dedicata a «un tema che fa da sfondo a moltissime discussioni e considerazioni di questi decenni di cambiamento accelerato: quello del confronto culturale e di esperienze tra le generazioni, che proprio per la velocità del cambiamento si trovano sempre più spesso ad avere a che fare con riferimenti e approcci molto diversi».

Lunedì 13 febbraio – le uscite vengono pubblicate sul sito il giorno successivo a quello in cui gli iscritti le ricevono nella loro casella di posta – il giornalista ha formulato, parole sue, un "elogio del lavoro ben fatto". L'argomento era talmente sentito da aver indotto molti lettori a scrivergli quello che pensavano al riguardo, e nell'uscita successiva Serra ha selezionato alcuni brani che lo avevano colpito in modo particolare.

Poiché la questione sta particolarmente a cuore anche a me, pubblico la mia personale "selezione della selezione".

FILIPPO, 25 ANNI
Ho 25 anni e sono quasi ingegnere informatico. Inizierò a lavorare, e non vedo l’ora, tra meno di sei mesi. Probabilmente sarà un buon lavoro, rispetto a quello di tanti miei coetanei, sia per stipendio che per condizioni lavorative. Sono uno di quelli a cui il lavoro dà soddisfazione, uno che si fissa sulle cose e non le molla più finché non sono fatte e rifinite come si deve. Sarebbe facile per me fare la vita di Tino Faussone, amare la gru montata a regola d’arte, gioire e soffrire con gli alti e bassi del lavoro, vivere proiettato nel futuro. Caro Serra, io non lo farò.
Io voglio lavorare per essere qualcos’altro che non sia il mio lavoro, perché il tempo mi scivola via incurante dei progetti, della produttività, del conto in banca. Sarei felice di una vita tranquilla, vissuta tra gli affetti e senza troppi scossoni. Sono stato finora abbastanza fortunato da poterla immaginare.
CATERINA, 31 ANNI
Forse per me lavorare non è più un bisogno identitario. Se non avessimo bisogno di un secondo stipendio e se generazioni di femministe non avessero instillato in me il terrore del dipendere da un uomo, sinceramente penso che mollerei o chiederei un part time… Sono arrabbiata perché devo passare 8 ore su 24 a fare qualcosa in cui non credo, e per farlo non vedrò i primi passi di mio figlio. Sono arrabbiata perché il mio lavoro è inutile, eppure mi ci devo impegnare come se ne andasse della vita di una nazione. Lo so, sono fortunata ad averli, un lavoro e un figlio. Mi lamento di annoiarmi, sono degna di un titolo di giornale allarmista sulla mia generazione di sfaticati. Ma se prima si denunciava il lavoro ripetitivo e logorante fisicamente, vorrei fare notare che il mio è un lavoro ripetitivo e logorante, ma mentalmente.
CAMILLA, MILLENNIAL
Alla lunga a nessuno frega molto di quello che fai e anche il lavoro migliore stanca e annoia; e soprattutto non tutto quello che ci piace ci darà anche uno stipendio soddisfacente. Fine dell’illusione. Insomma, che questo “quiet quitting” (silente abbandono) non sia in verità una mobilitazione silenziosa di chi si è rotto di lavorare per arricchire gli altri senza ricevere nulla in cambio? Più che aspirazione alla trascendenza, mi pare che sia una questione di disillusione: il lavoro non ci renderà felici e la vita è ora, il covid ce lo ha insegnato. Lavorare serve a sostentarsi, nulla di più. Bisogna farlo, sì, ma col giusto distacco.
MARTA, 24 ANNI
Fra poco finirò l’università, per ora è sempre stata la scusa giusta per dire che, dopotutto, quei pochi soldi che portavo a casa erano già abbastanza. Ma il vero problema non sono i soldi, non è la passione, non è la difficoltà a fare il passo in più di qualità, non è il tempo. È il lavoro del giornalista. Per quanto ancora esisterà? Quanti giovani come me guardano al mondo del lavoro e vedono professioni che magari piacerebbe loro fare, o alle quali ormai sono chiamati dopo un percorso di studi, ma si chiedono: esisteranno fra 10, 15, 20 anni? Servirà ancora qualcuno che stia alla cassa, qualcuno che ti organizzi i viaggi, qualcuno che ti operi? Servirò ancora? Esisterà il mio lavoro? Concedeteci che, se non mettiamo il cento per cento in una professione, se abbiamo paura a crederci fino in fondo, se siamo titubanti nell’investire sacrifici ed energie in un percorso che sappiamo destinato a finire, abbiamo i nostri buoni motivi. Il futuro è fumoso, la crisi è ovunque e l’avanzamento tecnologico corre più veloce della nostra capacità di vedere, e vederci dentro.

A proposito di quest'ultima testimonianza, Hashem Al-Ghaili – che cito per il secondo giorno consecutivo – ha stilato un elenco dei 7 lavori che l'intelligenza artificiale e i robot per ora non ci ruberanno. Al sesto posto ha messo "sviluppatore software", che per inciso è il mio lavoro, perché «Avremo sempre bisogno di persone in grado di creare strumenti che ci sostituiscano», e quindi dovrei sentirmi sollevata... ma da quando ho scoperto le capacità di ChatGPT nello scrivere codice non sono mica così tranquilla! Parlando seriamente, rimango sempre più convinta che il futuro nel mondo del lavoro sia di coloro che le innovazioni tecnologiche riusciranno a padroneggiarle, a metterle al loro servizio, anziché lasciarsene travolgere.

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