Di recente su Facebook mi sono imbattuta in due post che ho trovato particolarmente significativi riguardo a temi piuttosto dibattuti: l'aborto terapeutico e il diritto alla cittadinanza e alla genitorialità.
Il primo l'ha scritto un anno fa, cogliendo l'occasione dell'anniversario per riproporlo, Marco Cattaneo, direttore di Le Scienze, Mind, National Geographic Italia e National Geographic Traveler...
Mio fratello è figlio unico
Nella mia bolla ha fatto capolino una discussione un tantino fuorviante sul “late term abortion”, che qualcuno chiama aborto al nono mese. E dai, lo sapete pure voi che per poterlo fare devono verificarsi circostanze eccezionali, che comprendono un concreto pericolo di morte per la gestante e anomalie letali del feto.
A questo proposito, mi è appena arrivato un lungo messaggio. Ve lo metto qui sotto.
Lasciate che vi racconti una storia. La mia storia.
Sono Claudio, il fratello di Marco. Sono venuto al mondo nel lontano aprile del 1967.
Già al quarto, quinto mese di gravidanza, mia madre era costretta a letto. Una gravidanza a rischio, dissero i ginecologi consultati.
E di lì in poi è stato un calvario.
Perché presto si riscontrò che i parametri vitali del feto erano deboli, poi debolissimi, infine estremamente deboli. Avevo malformazioni che non mi avrebbero permesso di sopravvivere.
Così il ginecologo di fiducia - dove fiducia è una parola grossa - suggerì velatamente un aborto terapeutico. Credo che fosse ormai il settimo mese di gestazione, ma non ho certezze, perché i testimoni di quella vicenda se ne sono tutti andati. E Marco era troppo piccolo per averne consapevolezza.
Lui però, disse il ginecologo, non lo avrebbe praticato, in virtù delle sue convinzioni morali. Così tutti gli altri, la cui fede nella divina provvidenza non era negoziabile in cambio di una più terrena pietas umana.
No, non c’erano soldi per andare in Svizzera, come bisbigliò qualcuno di quegli ipocriti devoti. Ce n’erano al massimo per affidarsi al lavoro sporco di una mammana, di quelle che praticavano aborti nei sottoscala, ma mamma e papà decisero che tra i due rischi preferivano correre quello di portare a termine la gravidanza.
E così fu.
Mia madre sopportò mesi di dolore fisico e di terrore psicologico, finché un inutile, secondo parto cesareo pose fine a quella che sembrava un’interminabile sofferenza.
La sua, perché la mia era già finita.
Io, Claudio, non ho mai visto la luce del giorno. Quando mi hanno scavato fuori da mia madre ero già morto. Non ho mai esalato un respiro.
Mia madre, Adriana, è sopravvissuta. Ma non ha mai superato del tutto il trauma di quella violenza, fisica e psicologica. E nei decenni di depressione di tanto in tanto riemergeva anche questa vecchia storia. Fino a quando mi ha nominato anche durante i deliri della demenza. Ne parlava con Marco, mio fratello. Lei pensava che ne avesse quattro o cinque, ma uno, Claudio, “quello non lo vedo da tanto tempo”.
Marco non è rimasto orfano, per un pelo. Ma se lo fosse rimasto non ci sarebbe stato nessun senatore Pillon né nessun suo devoto sostenitore a occuparsi di lui.
Per la vostra fede, non sono nemmeno andato in Paradiso. Ebbene sì, sono un senza Dio. Ma se mai ne avessi avuto uno non sarebbe il vostro.
... e il secondo l'ha pubblicato il 27 marzo scorso la giornalista freelance Elena Goretti.
Mia figlia Nina Uyen è nata in Vietnam da due adulti vietnamiti. Ha caratteri visibilmente asiatici, va a scuola in Italia, parla perfettamente italiano, ha amici italiani, fa danza in una scuola italiana, ed è a tutti gli effetti una cittadina italiana. Non è lo stesso per la sua amichetta Ying (nome di fantasia), che è nata in Italia da due adulti cinesi, anche lei va a scuola in Italia, parla italiano, ha amici italiani, fa nuoto in Italia, ma no, non è proprio per niente cittadina italiana.
Mia figlia Nina Uyen, inoltre, non ha alcun legame biologico con me e con il suo papà. Ha un Dna diverso, un gruppo sanguigno diverso, geni e caratteristiche ereditarie diverse da entrambi. Eppure sia io che il suo papà siamo riconosciuti dalla legge italiana come suoi genitori, in tutto e per tutto.
Anche il suo amichetto Giulio (nome di fantasia) non ha alcun legame biologico con la sua mamma e il suo papà. È nato tramite PMA eterologa con donazione di entrambi i gameti, pertanto ha un Dna diverso, un gruppo sanguigno diverso, geni diversi e caratteristiche ereditarie diverse dalla sua mamma e dal suo papà, ma entrambi i suoi genitori sono riconosciuti dalla legge italiana come tali, in tutto e per tutto.
Non è lo stesso invece per la loro compagnetta Paola (nome di fantasia) che non ha un legame biologico con una sola delle sue mamme, non ha con lei geni in comune, caratteristiche ereditarie in comune, ma proprio per questo la legge italiana non la riconosce genitore, eh no, in questo caso no, per niente di niente.
Il nostro è chiaramente un Paese che discrimina i bambini. Un Paese che li rende “diversi” fra loro per diritti. Nel suo stesso corpus legislativo prevede eccezioni che creano disuguaglianze gravissime tra bambini, per l’origine geografica e le inclinazioni sessuali dei genitori.
E io devo ammettere che sono anni e molti governi che non vedo qualcuno scandalizzato per questo. Scandalizzato al punto da decidere di lottare, creare alleanze e stringersi in Parlamento per cambiare una legge incivile e per nulla europea che tuttora ci caratterizza e che ricade vergognosamente sui nostri bambini. Non so cosa ne pensiate voi.
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