[...] ho sempre considerato infantile, imbarazzante, non all’altezza della tragicità dei fatti, usare l’immagine del duce appeso con la disinvoltura e il cinismo con cui lo si è fatto, soprattutto in questi ultimi anni. Non lo considero all’altezza di un antifascismo esigente, solido, fatto di lettura, memoria del trauma e rigoroso ascolto dei testimoni. L’antifascismo è un abito che va saputo portare. La sua sintesi non è in quel fotogramma di vendetta, che ripresenta quella contemplazione del teschio e della morte che fu semmai un tratto specifico del fascismo, ma è nelle tante foto delle città liberate, che forse, non avendo in sé la qualità del cinismo malevolo, finiscono per non avere su internet lo stesso potenziale del meme «a testa in giù».
Il meme è un dispositivo che sintetizza e veicola l’informazione, ma ci sono vicende così corpose che non possono passare attraverso una macchina di astrazione potente e sofisticata senza che la polpa non ne venga strappata via, lasciando un misero osso. Il meme «a testa in giù» non produce nessuna illuminazione, nessuna rivelazione o integrazione di conoscenza, ma solo ripetizione sorda e faziosa della propria identità antifascista, che diventa così per il gruppo una forma di tribalismo e per l’individuo una forma tra le tante di autocompiacimento e narcisismo. Del resto, chi vuoi che si accorga al supermercato di quella confezione rovesciata, se non chi è già parte della tua tribù? Solo ripetizione e riconoscimento tra simili. Diciamo la verità: anche l’antifascismo, un po’ come la capacità di comprensione del testo, partecipa di un generale processo di deterioramento, cognitivo e anche emotivo.
Anch'io, pur essendo orgogliosamente antifascista, tendo a storcere il naso quando qualcuno, nel riferirsi a persone di destra, si diverte a capovolgere foto o scritte. E Carozzi ha spiegato le ragioni del mio disagio assai meglio di quanto avrei mai saputo fare io.
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