All'indomani del
sesto scudetto consecutivo conquistato dalla mia squadra del cuore, la
Juventus, su
La Stampa è uscita una
lettera scritta dal trentanovenne
Gigi Buffon, portiere e capitano della Vecchia Signora... o da chi per lui! ;-) Ne riporto il testo qui di seguito.
Abbiamo vinto. Di nuovo. Per la sesta volta consecutiva. Un record condiviso con Barza [Andrea Barzagli, NdC], Chiello [Giorgio Chiellini, NdC], Leo [Leonardo Bonucci, NdC], Stephan [Lichtsteiner , NdC] e Claudio [Marchisio, NdC]: i vecchi del gruppo (vecchi si fa per dire naturalmente... eccezion fatta per Andrea, lui è vecchio davvero). Con il passare dei mesi, delle partite e dei successi, in tanti hanno parlato di vittoria annunciata, di strada spianata, di campionato in discesa, di manifesta superiorità. Non sono d’accordo.
È il pensiero di chi non ha mai vinto che tende a banalizzare la fatica di chi ci riesce. In questo sesto scudetto non c’è stato nulla di scontato, prevedibile o sicuro. Eravamo i favoriti, certo, per quanto costruito nelle ultime cinque stagioni. Ma siamo ripartiti da zero, ci siamo rimessi in discussione, abbiamo lottato e vinto. Nessuno ci ha regalato nulla. Ogni avversario con noi si è impegnato al massimo. Tutti hanno tifato contro. Ed è normale. I più forti sono sempre più antipatici. Ma io mi tengo l’antipatia e lascio agli altri l’invidia per l’impresa che questa società, tutta la società, è riuscita a costruire.
La prima parola che penso dopo ogni vittoria è «domani». Sono orgoglioso dei trofei conquistati. Sento di essere un uomo del mio tempo. Ma è quello che ancora mi attende a tenermi vivo e in continuo movimento. Dalla vita ho avuto più di quanto ho desiderato. Certamente più di quanto ho chiesto. Davanti a un nuovo traguardo, di fronte a un ulteriore obiettivo centrato ho sempre la consapevolezza di aver dato il massimo e la sensazione di aver ricevuto - se possibile - ancor di più. Un retrogusto di costante riconoscenza alla vita che mi costringe a essere un inguaribile ottimista e che mi spinge ad andare sempre oltre: oltre me stesso, oltre le vittorie, oltre il limite. Sono sei scudetti consecutivi ma anche dieci in carriera.
Sì, dieci. Non mi vergogno a dirlo. Li ho vinti tutti. Sul campo. Accanto a campioni di cui, mentre scrivo, rivedo volti, fatica e sorrisi. La Federazione, Wikipedia o la Lega dicono che sono otto. Io non discuto arbitri, giudici e leggi. Ma nessuno può negarmi il diritto di sentirli tutti miei. Il mio primo amore è stata una ragazzina incontrata alle medie. Era un sentimento non corrisposto. Ma cosa importa, per me era amore. Il riconoscimento nella vita non è tutto. Io sento mie, intimamente mie, alcune canzoni di Vasco o alcune poesie di Neruda. Non le ho composte io. Ma è un fatto relativo perché in fondo, come ha scritto Troisi ne «Il Postino», la poesia non è di chi la scrive ma di chi gli serve. Nessuna polemica quindi. Nessuna volontà di riaprire capitoli passati. Solo l’orgoglio per quanto ho costruito, vinto e conquistato sul campo. Mai solo. Sempre in squadra!
Un orgoglio che mi riporta all’estate 2006. Un’estate calda e frenetica. Un’estate di esodi comprensibili e non giudicabili. Ma anche un’estate di conferme e di voglia di cambiare la storia. Anzi, di scrivere la storia. Nessuno come noi. Nessuno prima di noi. Penso a Pavel [Nedvěd, NdC], Alex [Del Piero, NdC], David [Trezeguet, NdC], Camo [Mauro Germán Camoranesi, NdC]... a me stesso. Scegliemmo insieme di rimanere per onorare una maglia, una società, un popolo di tifosi. Perdemmo tutti qualcosa per guadagnare dei beni non misurabili e non barattabili: il rispetto e l’affetto. Valori fondanti per un gruppo e una squadra. Perché senza il noi, non esisterebbero vittorie, record e conquiste. Non voglio entrare nel dizionario delle citazioni delle frasi fatte. Ma senza tutti coloro che lavorano in campo e fuori dal campo (magari nell’ombra) per permettermi di dare il meglio, tutto questo non sarebbe possibile. E la cosa più incredibile è che tutto questo non è ancora finito.
Ma, pur non essendo né tifosa romanista né fan di
Francesco Totti, colgo l'occasione per condividere anche il testo di una
lettera d'amore per la Roma scritta l'estate scorsa dal Pupone – o da chi per lui, anche in questo caso ;-) – e pubblicata su
The Players' Tribune. L'ho letta casualmente proprio in questi giorni, e mi ha colpita parecchio.
Ventisette anni fa qualcuno bussò alla porta del nostro appartamento di Roma. Ad aprire andò mia madre Fiorella. Le persone che erano dietro la porta avrebbero potuto cambiare la mia carriera calcistica.
Quando aprì la porta c’erano dei signori che si presentarono come dirigenti sportivi.
Ma non erano della Roma: indossavano indumenti rossi e neri.
Erano dell’AC Milan e volevano che andassi a far parte della loro squadra. A tutti i costi.
Mia madre alzò le braccia al cielo. Che cosa pensate che abbia detto a quei signori?
Quando sei un ragazzo di Roma, ci sono solo due scelte: puoi essere giallo-rosso o bianco-celeste. Roma o Lazio. Nella nostra famiglia, esisteva solo una scelta possibile.
Purtroppo non ho avuto la fortuna di conoscere mio nonno, poiché morì quando ero un bambino. Ma mi ha lasciato un dono fantastico. Fortunatamente per me, mio nonno Gianluca era un tifoso accanito della Roma ed ha trasmesso questo amore a mio padre che, a sua volta, lo ha trasmesso a mio fratello e a me.
L’amore per la Roma ci è stato tramandato. E’ sempre stato più di un Club di calcio, è parte della nostra famiglia, del nostro sangue e delle nostre anime.
Non avevamo la possibilità di vedere molte partite in TV perché, anche se disputate a Roma, non venivano trasmesse frequentemente negli anni ’80. Quando ho compiuto 7 anni, mio padre comprò dei biglietti e finalmente ebbi la possibilità di andare a vedere I LUPI allo Stadio Olimpico.
Ancora adesso posso chiudere gli occhi e ricordarmi quello che ho provato. I colori, le canzoni, il fumo dei petardi che esplodevano. Ero un ragazzo vivace e anche solo essere lì nello stadio, circondato da tutti gli altri tifosi della Roma ha acceso in me qualcosa di diverso. Non so come descriverlo…
Bellissimo.
Questa è l’unica parola che può descrivere ciò che provai.
Non credo che nessuno nel mio quartiere di San Giovanni mi abbia mai visto senza un pallone al piede. Giocavamo a calcio ovunque, sui sanpietrini, vicino alle chiese, nei vicoli. Ovunque.
Fin da bambino il calcio era per me molto di più di una semplice passione: ero ambizioso e volevo che diventasse la mia professione. Iniziai a giocare per alcuni club giovanili. Sulle pareti della mia stanza avevo avevo appeso poster e articoli ritagliati dai giornali su Giannini, il capitano della Roma. Era il mio idolo. Un simbolo perché era un ragazzo romano proprio come noi.
A 13 anni sentii qualcuno bussare alla nostra porta.
Questi signori dell’AC Milan mi chiesero di diventare rosso-nero: un’opportunità per fare carriera in un grande Club italiano. Ovviamente non era una decisione che potevo prendere da solo.
Mia mamma è sempre stata il “boss” e lo è tutt’ora. Lei, come tutte le mamme italiane, è piuttosto protettiva nei confronti dei figli e infatti non voleva che me ne andassi da casa per paura che mi succedesse qualcosa.
“No, no” rispose ai dirigenti e fu tutto ciò che disse “Mi dispiace. No, no”.
Fine del discorso. Il mio primo trasferimento era stato rifiutato dal “boss.”
Nel weekend mio padre accompagnava me e mio fratello alle nostre partite mentre mia mamma aveva il controllo di tutto dal lunedì al venerdì. Fu difficile rinunciare alla proposta dell’AC Milan perché avrebbe significato tanti soldi per la nostra famiglia ma così facendo mia madre mi diede un grande insegnamento quel giorno: la tua casa è la cosa più importante nella vita.
Solo qualche settimana più tardi, venni scelto durante una partita giovanile e la Roma mi fece un’offerta. Sarei diventato giallo-rosso.
Mia mamma se lo sentiva. Mi ha aiutato nella mia carriera in moltissimi modi. Si, era protettiva ma ha fatto così tanti sacrifici per essere sicura che io stessi sul campo da calcio ogni giorno. So che i primi anni sono stati duri per lei.
Era lei che mi portava all’allenamento e che mi aspettava. A volte mi aspettava per due, tre anche quattro ore per darmi la possibilità di vivere il mio sogno. Aspettava sotto la pioggia, al freddo, non le importava.
Aspettava per far sì che io realizzassi il mio sogno.
Fino a 90 minuti prima della partita non avevo idea che avrei fatto il mio debutto allo Stadio Olimpico. Ero seduto sul pullman che ci portava da Trigoria allo Stadio e sentivo crescere in me l’adrenalina. La serenità che avevo provato la notte prima era svanita. I tifosi della Roma sono diversi da tutti gli altri. Si aspettano tantissimo da te quando indossi la maglia giallo-rossa. Devi dimostrare il tuo valore e non c’è spazio per gli errori.
Quando sono entrato in campo per la prima volta ero sopraffatto dall’orgoglio di giocare per la mia città, per mio nonno, per la mia famiglia.
In 25 anni, quella pressione — quel privilegio — non è mai cambiato.
Certo ci sono stati degli errori. C’è stato anche un momento in cui, 12 anni fa, ho considerato la possibilità di lasciare Roma ed andare a giocare per il Real Madrid. Quando una squadra di grande successo, forse la più forte al mondo, ti chiede di entrarne a far parte, inizi a pensare a come sarebbe la tua vita in un altro posto. Ne parlai con il Presidente della Roma e quello fece la differenza. Alla fine fu la conversazione che ebbi con la mia famiglia che mi ricordò in che cosa consiste la vita.
La tua casa è tutto.
In questi 39 anni Roma è stata la mia casa. In questi 25 anni di carriera, la Roma è stata la mia casa. Spero di aver rappresentato il Club al meglio delle mie possibilità ed aver innalzato i colori della Roma il più in alto possibile vincendo lo scudetto e giocando nella Champions League. Spero siate fieri di me.
Potete definirmi un abitudinario. Ho lasciato la casa dei miei genitori solo quando mi sono fidanzato con mia moglie, Ilary. Così quando penso al tempo trascorso qui e a ciò che lascierò so già che mi mancherà la routine e le cose di tutti i giorni. Le molte ore di allenamento, le chiacchierate nello spogliatoio. La cosa che mi mancherà maggiormente sarà bere un caffè con i miei colleghi ogni giorno. Forse se tornassi un giorno come allenatore, riuscirei a godermi ancora questi momenti.
Molti mi chiedono, perché hai passato tutta la tua vita a Roma?
Roma rappresenta la mia famiglia, i miei amici, la gente che amo. Roma è il mare, le montagne, i monumenti. Roma, ovviamente, è anche i romani.
Roma è il giallo e il rosso.
Roma, per me, è il mondo.
Questo Club e questa città sono stati la mia vita.
Sempre.
A questo punto non posso fare a meno di pensare che al quasi quarantunenne Totti, nonostante i rapporti non idilliaci con l'allenatore giallorosso Luciano Spalletti, è stato concesso di concludere la carriera da giocatore nella "sua" squadra, per la quale a partire dalla prossima stagione continuerà a lavorare nel ruolo di dirigente. Mentre invece un altro grande campione sia sul campo che nella vita, il mio idolo
Alessandro Del Piero, questa soddisfazione
non l'ha avuta... :-(
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