martedì 18 aprile 2023

Quando arriva il momento di dire basta

Sono rimasta molto colpita da un breve articolo della scrittrice Silvia Avallone, condiviso sulla sua pagina Facebook oltre ad essere stato pubblicato su Sette, il settimanale del Corriere della Sera. Ne riporto qui di seguito il testo (scansionato utilizzando Convertio, che ho scoperto essere di gran lunga migliore del servizio di OCR che utilizzavo finora, anche se con caratteri così piccoli richiede comunque parecchi aggiustamenti).

IMPARIAMO A DIRE BASTA A CHI CI CHIEDE RITMI FRENETICI
FELICITÀ È DISUBBIDIENZA
Può capitare, una mattina, di svegliarsi già esausti, trascinarsi di fronte allo specchio e improvvisamente chiedersi: ma io per chi la vivo, questa vita? Questo lavoro che mi prende tutto, questi ritmi frenetici, questo imperativo categorico di macinare risultati... è davvero ciò che voglio?
Ho diversi amici che hanno detto basta: con le grandi città, la carriera aziendale, la reperibilità senza orari. Conosco persone che sono state capaci d'imprimere al loro tempo una rivoluzione: dalle ore serrate in ufficio alle stagioni della campagna. Alcuni miei coetanei hanno lasciato città come Milano per tornare in provincia e dedicarsi con spirito innovativo a mestieri antichi in sintonia con l'ambiente: la pastorizia transumante, la coltivazione di un meleto. Posso assicurare che le loro decisioni non hanno nulla di naïf: lavorano sodo, si mantengono con i frutti del proprio mestiere, e li ho sempre visti soddisfatti della propria libera scelta.
Conosco anche persone che hanno deciso, meno platealmente, di rallentare: guadagnare di meno per avere più tempo per sé stesse, la famiglia, gli amici, le passioni. Io mi ritengo una di queste. Certo, a volte il tiranno di cui liberarci è dentro di noi: il senso del dovere che abbiamo introiettato. Più spesso è il mondo del lavoro così com'è strutturato: secondo criteri che con l'umanità, con l'eticità, hanno poco a che fare. Cambiarlo è una sfida che, credo, sta diventando sempre più sentita.
Sono gli eventi traumatici – un lutto, una malattia. una separazione, i passati lockdown – a metterci di fronte alla nuda e cruda temporalità della vita, che è una, limitata, ed è giusto che ciascuno di noi decida, in autonomia, quali sono le sue priorità. Quello che trovo ingiusto, in generale, è piegare la nostra creatività, i nostri desideri e la nostra salute a quel che fa comodo agli altri, o meglio, alla società ultramaterialista e individualista in cui viviamo. Ci dicono «devi»: arrivare, guadagnare, produrre, distinguerti, se no sei un fallito. Ci dicono: io, io, io, solo l'io conta. E così perdiamo il mondo, il suo spettacolo, il senso di comunità, gli affetti e gli interessi che ci nutrono, l'orizzonte.
Non credo abbia senso questa corsa a cui ci è stato chiesto di tornare dopo lo stop forzato della pandemia. Come se non fosse successo nulla; come se, in quello squarcio, non avessimo intravisto una verità limpida: la vita è altro dal profitto, dalla conquista, dalla competizione. La vita è anche prendersi cura: degli altri, di sé stessi, del luogo in cui viviamo. Non è vero che «funziona così e basta», c'è sempre un'alternativa: quella che funziona per noi. E se non c'è, occorre crearla.
Di una cosa sono convinta: che non esiste felicità senza disubbidienza. Agli egoismi, alle ingiustizie, alle aspettative altrui, ai desideri inautentici.

In questo articolo ci vedo un chiaro nesso con la vicenda di quella che è stata una mia collega nell'azienda dove lavoravo prima, e da cui mi sono ritrovata estromessa dall'oggi al domani. Ne sono venuta a conoscenza perché lei ne ha parlato in una serie di video che ha condiviso su LinkedIn, dove siamo in contatto. Devi sapere che questa ragazza – ha una quindicina d'anni meno di me – a marzo 2019 ha dato le dimissioni: me ne vado a Londra a frequentare un master di data science, ci disse, voglio investire su me stessa. Invece, sbirciando il suo profilo professionale, non è mai risultato nessun master: lei a Londra ci ha lavorato per un periodo, tornando poi in Italia circa due anni fa. Adesso è una libera professionista e si occupa a 360° di formazione in ambito tecnico. Nei video ha confessato di aver vissuto un periodo molto difficile nell'azienda dove abbiamo lavorato insieme – anche se non l'ha nominata, mi è stato fin troppo chiaro a cosa si riferisse – entrambe come addette al supporto tecnico: quasi non passava giorno senza che un cliente la trattasse con sufficienza, dicendole cose del tipo «Voglio parlare con un ingegnere, non con una segretaria!» [a me qualcosa del genere è capitato solo una volta o due, perché avendo un pessimo rapporto col telefono prendevo quasi esclusivamente richieste di supporto da gestire via email, e credo che questo mi abbia penalizzata parecchio nel momento in cui si è dovuto scegliere "quali teste tagliare"]. Ma lei era un ingegnere, anzi un'ingegnera. Tutto questo stress l'ha condotta ad un livello di prostrazione tale da convincerla a dare le dimissioni, oltre a ricorrere a un aiuto psicologico. E io che, oltre a considerarla estremamente in gamba, la vedevo come una tipa tanto estroversa, sicura di sé e per nulla incline a lasciarsi scoraggiare...! Non avevo idea che stesse così male, e mi sento quasi in colpa per non essere stata in grado di cogliere il suo disagio facendo qualcosa per sostenerla. È proprio vero che l'apparenza inganna... Però sono proprio contenta che lei sia finalmente riuscita a trovare la sua strada; non dovrei far altro che prendere esempio, anziché lamentarmi e basta senza fare nulla di concreto per cambiare la mia situazione. Prima devo "solo" capire chi sono, e cosa voglio fare davvero "da grande"! ;-)

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