Di recente, seguendo il blog di Riccardo Gazzaniga, sono venuta a conoscenza di un personaggio che non ricordo di aver mai sentito nominare – all'epoca dei fatti ero una neomaggiorenne con la testa tra le nuvole – ma che secondo me meriterebbe un posto nei libri di storia: Pierantonio Costa, console italiano a Kigali durante il genocidio del Ruanda del 1994. Nel post, che rappresenta la versione ridotta di un capitolo del suo ultimo libro Come fiori che rompono l’asfalto – Venti storie di coraggio, Gazzaniga spiega in che modo Costa riuscì a salvare quasi duemila persone. Un comportamento che non esito a definire eroico, quello del diplomatico italiano... eppure lui lo ricordava – ne parlo al passato anche perché ho scoperto che è scomparso il 1° gennaio di quest'anno all'età di 81 anni – come se fosse la cosa più normale di questo mondo.
Quello che stava accadendo era al di là di ogni immaginazione. Osservavo quella barbarie pensando che millenni di civilizzazione e di convivenza erano solo un sottile strato di vernice sulla capacità dell'uomo di commettere atrocità, e di godere della sofferenza inflitta.
Ho solo risposto alla voce della mia coscienza. Quando bisogna fare qualcosa, semplicemente lo si fa.
Non l'ho fatto cercando il martirio, non l'ho fatto cercando l'eroismo. Ho fatto il mio dovere come console e poi verso me stesso, verso la mia coscienza.
Tra tanta violenza e tante sofferenze ho solo fatto quello che dovevo fare. È tutto.
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