martedì 1 aprile 2025

Sei un'ape o una mosca?

Di recente mi sono imbattuta nell'immagine qui sopra, recante una scritta.

Un uomo saggio una volta disse:
«Le api non perdono tempo a spiegare alle mosche che il miele è meglio della m***a».
Rileggilo di nuovo.

Anziché limitarmi a rileggerlo, l'ho googlato per vedere se per caso qualcuno avesse sviscerato il concetto, e ho trovato questo post di Favourite Singongo.

Le api sono selettive. Non le troverai ovunque; quando lo fai, è perché c'è qualcosa di prezioso nelle vicinanze, che si tratti di acqua, fiori o qualsiasi altra cosa che offra vero nutrimento. Sanno esattamente cosa stanno cercando e dove investire il loro tempo e la loro energia.
Le mosche, d'altra parte, sono dappertutto. Prosperano in ambienti sporchi e caotici, attratte da tutto ciò che è marcio o sgradevole. Non ci vuole molto per attirare una mosca: lascia semplicemente fuori qualcosa di avariato, ed eccole lì.
Lo stesso vale per le persone. Puoi scegliere di essere un'ape, attratta dalla crescita, dal valore e dall'energia positiva, oppure puoi essere una mosca, e inseguire cose che sono al di sotto del tuo potenziale, accontentandoti di ciò che è facilmente accessibile ma in definitiva senza valore.
In sostanza, si tratta di valore: cosa cerchi, come trascorri il tuo tempo e l'ambiente in cui ti permetti di prosperare. Le api non abbassano i loro standard. Si muovono con uno scopo e una direzione, lavorando costantemente per creare qualcosa di dolce e duraturo. Le mosche? Esistono semplicemente, reagendo a qualsiasi cosa ci sia là fuori, senza alcun senso di discernimento.
Ma ecco il fattore chiave: il valore non riguarda solo quello che hai o dove ti trovi, ma quello su cui scegli di concentrarti e di perseguire. Se vivi come un'ape, sei selettivo riguardo a quello che ti circonda, alla tua azienda e ai tuoi obiettivi. Non sprechi tempo in ambienti negativi o con persone che non capiscono il tuo valore. Invece ti muovi verso ciò che ti nutre, ciò che eleva il tuo scopo e ciò che ti avvicina al successo, che si tratti di crescita personale, connessioni significative o risultati duraturi.
Le mosche, d'altra parte, si accontentano di tutto. Sono guidate da soluzioni rapide, attratte da ambienti che forniscono gratificazione immediata ma nulla di sostanziale. Non mettono mai in discussione l'ambiente circostante e, alla fine, non si elevano mai al di sopra dei bassi standard che hanno accettato.
Quindi, domandati: sei un'ape o una mosca?
Essere un'ape significa impegnarsi per l'eccellenza e uno scopo. Si tratta di adoperarti per ciò che aggiunge valore alla tua vita e riconoscere che sei degno del miele, non degli scarti. Significa essere consapevoli degli ambienti in cui ti metti e assicurarti che tutto ciò che fai sia in linea con i tuoi veri obiettivi.
Alla fine della giornata, sono le tue scelte a definirti. Insegui ciò che è conveniente e fugace oppure cerchi ciò che è raro, prezioso e arricchente? Ti accontenti di ciò che ti circonda oppure crei attivamente un ambiente che favorisca la crescita e la realizzazione?
La differenza tra un'ape e una mosca non sta solo nel dove vanno, ma nel perché ci vanno. Sii intenzionale con la tua vita. Insegui il miele, e non preoccuparti delle mosche: non sono al tuo livello.

E niente, mi ha dato parecchio da pensare...

lunedì 31 marzo 2025

Ridere con intelligenza

Il gruppo Contenuti Zero è specializzato in reel che mescolano con leggerezza intenti divulgativi ed estro artistico, strizzando non di rado l'occhio all'attualità. Nei giorni scorsi hanno pubblicato il video di una fittizia chat WhatsApp in teoria riservata ai "Ragazzi dell'Asse" – Hitler, Mussolini & company – alla quale era stato però aggiunto per errore, ehm, un intruso: chiaro riferimento all'assurda vicenda dei piani di guerra del governo USA condivisi inavvertitamente con il direttore del mensile The Atlantic.

Altro argomento di peso un bel po' inferiore ma altrettanto discusso sui social – comunque se ne parlava già nell'estate 2023, ben prima che uscisse – è il rifacimento di Biancaneve attualmente nelle sale, definito dai più acerrimi nemici dell'inclusività un pastrocchio woke, da quasi tutti gli altri semplicemente 'na ciofeca. Io non lo guarderò, anche perché in generale i remake in live action dei film d'animazione che ho amato mi deludono sempre... comunque mi limito a segnalare le immaginarie proteste che i sette nani rivolgono a Biancaneve tramite messaggio vocale. :-D

domenica 30 marzo 2025

Sulla parabola del figlio(l) prodigo

La liturgia cattolica odierna prevedeva un brano tratto dal Vangelo secondo Luca (Lc 15,1-3.11-32): la ben nota parabola del figlio prodigo, che molti ricorderanno dai tempi del catechismo, anche se magari da allora, come la sottoscritta, potrebbero essersi allontanati dalla "retta via". ;-)

In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».
Ed egli disse loro questa parabola:
«Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

L'ho scoperto non perché oggi sono andata a messa, ma perché Salvatore Savasta ne ha pubblicato nella sua pagina Facebook un'analisi approfondita – si capisce chiaramente che lui di biblistica ne sa a pacchi – e per molti versi sorprendente. Ne riporto il testo qui di seguito.

Oggi, nelle Chiese cristiane, parleranno della parabola del figliol prodigo.
La più celebre, la più citata, la più travisata delle storie evangeliche. Apparentemente semplice, lineare come un sentiero battuto: un ragazzo chiede l’eredità, se ne va, sperpera tutto, tocca il fondo, torna a casa, e il padre lo accoglie con un abbraccio che ha fatto versare fiumi d’inchiostro. Ma, come sempre, leggiamo bene, perché forse non dice esattamente ciò che ci hanno raccontato fin da bambini.
Intanto, cominciamo da ciò che non c’è: nel testo greco originale non c’è la parola “prodigo”. Nessuno chiama quel ragazzo così. È un’etichetta postuma, arrivata col latino, col prodigus, lo sprecone.
Ma nel Vangelo di Luca c’è scritto che visse “ἀσώτως” (asōtōs) cioè sregolatamente, in modo dissoluto, privo di salvezza. Non necessariamente peccaminoso, non si menziona alcun crimine.
Solo una vita slegata, priva di direzione. E già qui il terreno comincia a scricchiolare sotto i piedi dell’omelia. Perché, a ben vedere, quello che fa il giovane è scandaloso solo per chi vive in una cultura in cui chiedere l’eredità al padre ancora vivo è un atto di rottura totale, di ribellione strutturale all’ordine familiare. Non è solo avidità: è come dirgli “per me sei già morto”.
In altre culture, invece, questo gesto sarebbe considerato normale.
Ecco il primo colpo di scena della storia: il padre acconsente. Divide i beni, ma attenzione:
Il verbo usato è διεῖλεν τὸν βίον αὐτοῖς (dielein ton bion autois) cioè “divise la vita tra loro”.
Non “i soldi”, non “le terre”: la vita.
Bíos, non chrêmata.
È come se si fosse auto-sezionato per soddisfare quel figlio. Un’immagine quasi mitica, archetipica. Un padre che si spezza per amore.
Il ragazzo, un versetto dopo, finisce nel punto più basso della scala sociale: a pascolare porci. Per un ebreo, l’animale più impuro.
Ma non solo: lui desidera il cibo dei porci. Non lo mangia, lo desidera.
Questo dettaglio, che molti saltano, è un abisso. Non è solo fame: è fascinazione per l’impurità, attrazione verso la perdita totale del sé. Una vera e propria morte rituale.
Quando torna, non dice “perdonami”. Dice: “Non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”.
E il padre? Non lo ascolta nemmeno. Gli corre incontro. Azione del tutto disonorevole per un uomo anziano in Medio Oriente. Lo abbraccia e lo riveste.
E qui c’è un dettaglio denso di simbolismo: il mantello, l’anello, i sandali.
Il mantello è dignità, l’anello è autorità, probabilmente un sigillo familiare, e i sandali sono il segno di chi è libero. Solo gli schiavi andavano in giro scalzi.
Il padre non lo riaccoglie solo: lo reintegra, lo restaura. Come se nulla fosse mai accaduto. Ma, attenzione, non pronuncia mai la parola “perdono”. È assente dal testo.
Forse perché non c’è nulla da perdonare, come sostengono alcune culture, oppure perché il perdono, qui, è azione, non parola.
E il fratello maggiore?
Lui è lo specchio del lettore medio. L’onesto, il lavoratore, il deluso.
Rappresenta, nella parabola, i farisei, gli scribi, i giusti convinti.
E Gesù, nel costruire la parabola, lo lascia con un pugno di rabbia e una frase gelida: “Tutto ciò che è mio è tuo”. Quella frase implica che il figlio maggiore, avendo già ricevuto la porzione doppia spettante al primogenito, è effettivamente il solo erede rimasto.
Ma non c’è lieto fine. Il fratello non entra in casa. Rimane fuori. Il vero dramma è qui. Non nel figlio che se ne va, ma in quello che resta prigioniero del proprio risentimento.
Il figlio che sperpera, vive nella povertà, si umilia e torna, ottiene tutto senza merito. Intanto il lavoratore onesto (il fratello) è snobbato. Questo rovesciamento della logica del merito può essere letto in chiave anticapitalista, o come critica del legalismo ebraico. Un’utopia rovesciata in forma di storia.
Sappi che già prima che ne parlassero i vangeli, esistevano storie simili.
In ambiente ebraico e greco-romano ci sono racconti con echi paralleli.
Nella letteratura rabbinica, in particolare nel Midrash, esistono storie di figli che si allontanano e tornano, di padri che accolgono con clemenza, di giustizie che vengono rovesciate. Ma sono frammenti, non parabole complete.
Più interessante ancora è un racconto della letteratura egiziana, noto come "La storia del figlio disobbediente", in cui il giovane spreca il patrimonio del padre con le prostitute e poi, completamente povero, si pente.
Alcuni studiosi ipotizzano che questo racconto fosse conosciuto anche in Palestina e che quindi Luca ne fosse al corrente, quando scrisse il vangelo.
Ma nulla è certo, e comunque nessun testo precedente presenta la stessa struttura drammatica e simbolica del racconto attribuito a Gesù.
Simbolicamente, questa parabola è una bomba teologica.
Capovolge l’idea di giustizia retributiva: non vince chi lavora sodo, ma chi accetta ciò che accade.
Il figlio che torna non merita nulla, ma ottiene tutto. Il fratello maggiore ha tutto, ma non sa ricevere.

L’economia della grazia sostituisce la legge del merito. È scandaloso. Sovversivo.
E infatti è rivolta ai farisei, non ai peccatori. Ai giusti, non agli ingiusti. È una trappola dialettica mascherata da favola, nonostante quello che ci fanno credere durante il catechismo.
E infine, non dimentichiamoci che la parabola è ambientata in tre atti: partenza, caduta, ritorno.
Una struttura che ricalca il viaggio iniziatico, il ciclo di morte e rinascita, quasi da misteri eleusini, antichi riti di iniziazione nati nell’Attica ma diffusi anche nella Magna Grecia.
È l’archetipo dell’eroe che scende negli inferi, perde tutto, comprende, risale, e si trasforma. Ma qui non c’è gloria. Nessuna morale. Nessuna punizione. Solo una casa, una tavola imbandita, e una porta che rimane aperta, ma solo per chi vuole entrare.
E allora, forse, più che la storia di un figliol prodigo, è la parabola di un uomo che, per certi versi, anticipava una visione del mondo che oggi chiameremmo marxista.
Una cosa è certa: se davvero questa storia è stata raccontata da un uomo autorevole oltre duemila anni fa, evidentemente doveva avere un forte risentimento verso il potere romano e la sua politica sociale ed economica.

[L'immagine che apre il post è Il ritorno del figliol prodigo di Rembrandt]

sabato 29 marzo 2025

Quando l'AI saccheggia l'arte

In questi giorni i social sono letteralmente invasi da immagini trasformate nello stile dello Studio Ghibli di Hayao Miyazaki tramite l'intelligenza artificiale. Devo ammettere che di primo acchito ho scorso con incantata ammirazione le numerose gallerie: si va dall'attualità (con papa Francesco che dà a Fabrizio Corona quello che si merita, peccato sia solo finzione)...

... ai memi più in voga in Rete...

... ai fotogrammi iconici – eh, lo sapevo che prima o poi avrei ceduto pure io all'uso di quest'aggettivo inflazionatissimo :-/ – di film famosi (qui Jack e Rose in Titanic)...

... ai cantanti italiani in auge qualche decennio fa (come Gianni Morandi, Enrico Ruggeri e Umberto Tozzi vincitori di Sanremo 1987 con Si può dare di più).

Poi però, leggendo questo articolo de Il Post e anche molte opinioni sui social, mi sono resa conto che questa "ghiblificazione" non è affatto una buona cosa, e non piacerebbe affatto allo stesso Miyazaki (il quale, ironia della sorte, è stato "ghiblificato" a sua volta in un'immagine nella quale gli si mette in bocca l'opinione da lui espressa già qualche anno fa sull'impiego dell'intelligenza artificiale nell'animazione).

Insomma, sono perfino sollevata per il fatto che la versione gratuita di ChatGPT di cui dispongo non mi abbia permesso di rielaborare la mia fotografia. (Sì, lo so che sarebbe stato pure il caso di fare a meno di includere nel post le immagini sopra, ma non ho resistito a mostrare le potenzialità sempre più impressionanti dell'AI)

Concludo con un paio di immagini a tema: Homer Simpson in un famoso meme circondato da personaggi tutti "ghiblificati"...

... e una vignetta dell'illustratore Boban Pesov che raffigura il metaforico sciacallaggio dell'arte di Miyazaki, nella fattispecie il personaggio di Totoro, da parte dell'AI.

venerdì 28 marzo 2025

Parole che pesano come macigni

Al risveglio stamattina ho dato come di consueto una scorsa alla mia timeline di Facebook, e mi sono imbattuta nel post pubblicato poche ore prima da Salvatore Savasta, lo scrittore (anche se continua a lavorare come portiere di notte per mantenere la sua famiglia) che di recente ha pubblicato il thriller Il marchio di Medusa, e che nel libro precedente Il mostro sotto il letto aveva raccontato la propria esperienza di padre di una bambina affetta da una malattia genetica rara. Il post è una quanto mai vibrante lettera aperta rivolta al filosofo Umberto Galimberti.

Egregio Professor Galimberti, le scrivo da una frontiera.
Non una di quelle immaginarie, tracciate sulle carte dai potenti, ma una di carne e nervi, di notti insonni e mani stanche: la frontiera dove si cresce una bambina con una sindrome genetica ultra rara. Un nome complicato, un destino complicato. Eppure, se la vedesse, lei la confonderebbe con un miracolo.
Mi sono interrogato a lungo, pensando se fosse il caso di scriverle una lettera aperta.
Perché, vede, anche solo nominarla mi è causa di forte turbamento.
Dopo averci pensato per giorni, mi sono detto che invece è il caso di scriverle, perché questo nostro mondo sta prendendo una strana deriva e comincio seriamente a pensare che questa sia anche causa dei silenzi. È causa del fatto che qualcuno ci ha insegnato che dove l'idiota parla, l'intelligente tace.
Però, e sono certo che lei da buon filosofo mi comprenderà, comincio a credere che se questa società permette agli idioti di parlare alle masse è perché nessuno, tra gli intelligenti, ha scelto di scendere al loro livello per sussurrare ad un orecchio: taci, idiota.
Per citare un noto maestro: "A uno stronzo non puoi dire stupidino. Gli devi dire che è stronzo, altrimenti gli stai dando un'illusione".
Mi perdoni l’irruenza, non ho il tempo né il privilegio di indossare guanti bianchi quando stringo il cuore tra le dita.
Qualche giorno fa, durante un suo intervento, lei ha affermato, con l’autorità di chi ha smesso da tempo di ascoltare, che la scuola è diventata una clinica psichiatrica. Ha snocciolato diagnosi come fossero patacche sul petto di un esercito in disfatta: disgrafici, dislessici, Asperger, autistici… e poi quel “chi l’ha detto?!?” lanciato come una sassata contro chi, come mia figlia, vive ogni giorno dentro una lotta silenziosa eppure potentissima.
L’ha detto la scienza, Professore.
L’ha detto la neuropsichiatria, la pedagogia, la genetica, la medicina.
Lo dicono gli occhi di mia figlia quando fissano il mondo come se fosse un puzzle da ricomporre senza avere il disegno sulla scatola.
Lei, però, ha deciso di non ascoltarli.
Ha deciso che l’insufficienza non è il sintomo, ma la colpa.
Che la fatica è un’invenzione. Che il disagio è una scusa.
E ha affermato, senza tremare nella voce anzi, tra gli applausi, che i genitori si procurano “una bella ricetta dal medico” solo per regalare ai figli “un percorso facilitato”.
Venga con me, Professore.
Una sola giornata. Una.
Le faccio vedere com’è quel percorso facilitato. Le faccio sentire l’eco dei corridoi di una neuropsichiatria infantile.
Le faccio leggere i referti, quelli con le parole che non sai mai come pronunciare davanti a tua moglie.
Le faccio tenere mia figlia sulle ginocchia cercando per ore di spiegarle che L più A si legge LA, mentre ti chiedi se è colpa tua. Se hai sbagliato qualcosa. Se esiste un metodo, uno qualsiasi, che le permetta di imparare a comprendere che quei segnetti scritti a matita si chiamano lettere.
Lei dice: “Ai miei tempi non c’erano tutte ste cavolate”.
Ma ai suoi tempi, caro Professore, i bambini venivano messi dietro, zittiti, umiliati, raddrizzati a schiaffi.
Lei stesso si vanta del fatto che la sua insegnante le ha rotto il naso schiaffeggiandola con l'anello che il marito le ha regalato di rientro dalla Libia.
Lei fa parte di quella generazione che con convinzione scrive su Facebook: "Quelli che imparavano tutto usando solo due libri".
Vuole la verità? Se il risultato di quella generazione è stata dare a lei l'epiteto di filosofo, è evidente che abbiate studiato tutto su due libri.
Perché vivere l’orrore e non riconoscerlo è peggio che ignorarne l’esistenza. È tradimento. È complicità.
È come se Levi, piuttosto che "Se questo è un uomo", avesse scritto "Ai miei tempi si andava in giro con un pigiama a righe e si stava più comodi".
I bambini di cui parla senza alcun diritto, ai suoi tempi venivano chiamati “ritardati”, “scemi”.
E molti di loro sparivano nel silenzio di scuole che non li volevano, di famiglie che non sapevano, di società che non li vedevano.
Noi oggi li chiamiamo per nome.
E lottiamo perché abbiano il loro posto.

Non un posto speciale, la "scorciatoia voluta dai genitori", come la chiama lei.
Il loro posto.
E dato che ha 82 anni, le dico con il rispetto che si deve agli anziani e con la fermezza che si deve ai figli: forse è giunto il tempo di sedersi davvero al bar, se proprio vuole continuare a fare chiacchiere da bar.
Perché sopra un palco, Professore, le parole non pesano solo quanto la sua opinione.
Pesano quanto il futuro dei nostri figli.
E per mia figlia, io quel futuro me lo strappo a morsi.
E se qualcuno pensa che sia troppo duro, troppo emotivo, troppo scorretto…
Che venga anche lui, una giornata sola.
A camminare accanto a noi, nelle nostre "scorciatoie".
Con la ferocia educata di chi non si arrende,
mi faccia una cortesia: scelga il silenzio, che è la forma più nobile di pensionamento.

Io delle esternazioni del professor Galimberti non sapevo nulla, ma stamattina, ascoltando gli arretrati del podcast Amare parole mentre andavo al lavoro, ho scoperto che Vera Gheno ne aveva parlato nell'episodio del 16 marzo scorso (del quale si può ascoltare una parte qui su Spotify, mentre l'ascolto dell'episodio integrale è riservato a noi abbonati a Il Post). Fra i contenuti menzionati è linkato anche un articolo che contiene il video dell'intervento incriminato. E niente, di fronte a una posizione così indifendibile da parte di Galimberti non posso che appoggiare la richiesta di Salvatore Savasta.

giovedì 27 marzo 2025

If you don't use them, lose them!

Citando Wikipedia...

Il termine decluttering si riferisce al processo di rimuovere oggetti superflui o non necessari da uno spazio, con l'obiettivo di creare un ambiente più organizzato e funzionale. Questa pratica è spesso associata a stili di vita minimalisti e ha effetti positivi sia sul piano fisico che psicologico.

Tale pratica è esposta nel bestseller Il magico potere del riordino di Marie Kondo, che continua a languire sul mio Kindle in attesa che mi dedichi a leggerlo... ma su Facebook ho trovato due elenchi ben più pratici di oggetti dei quali potrebbe essere il caso di disfarsi!

Il primo – nonché l'ultimo in ordine di tempo, perché l'ho visto oggi – mi sembra piuttosto ragionevole...

30 COSE DA ELIMINARE DI CUI NON SENTIRAI MAI LA MANCANZA
  1. Trucco e prodotti per la cura della pelle scaduti (la tua pelle ti ringrazierà!)
  2. Scontrini vecchi (a meno che non ti servano per le tasse, buttali!)
  3. Calzini bucati (perché li tieni?)
  4. Tupperware a cui mancano i coperchi (adesso sono inutili.)
  5. Prodotti della dispensa scaduti (controlla quelle spezie!)
  6. Orecchini spaiati (quello perduto non tornerà.)
  7. Menu da asporto (è tutto online adesso!)
  8. Elastici per capelli sformati (comprane di nuovi!)
  9. Barattoli di candele vuoti (non li userai per il faidaté.)
  10. Caricabatterie per dispositivi che non possiedi più.
  11. Asciugamani usati (trasformali in stracci per la pulizia!)
  12. Bottiglie d'acqua inutilizzate (quante te ne servono davvero?)
  13. Vecchi biglietti d'auguri di compleanno (tieni solo quelli con un valore affettivo.)
  14. Jeans che non ti vanno bene (lasciali andare!)
  15. Penne e pennarelli secchi (provali e buttali!)
  16. Libri che non leggerai mai più.
  17. Medicinali scaduti (smaltiscili in modo sicuro!)
  18. Gioielli rotti (se sono "in attesa di essere aggiustati" da anni...)
  19. Riviste e quotidiani (non li leggerai mai più.)
  20. Opuscoli di viaggio (esiste Google.)
  21. Articoli da toeletta degli hotel (di quanti mini shampoo hai bisogno?)
  22. Materiali per bricolage inutilizzati (sii onesto, li stai usando?)
  23. Scarpe consumate (se ti fanno male ai piedi, devi buttarle!)
  24. Disegni dei bambini (tienine alcuni, non l'intera pila!)
  25. Elettronica obsoleta (vecchi telefoni, cavi, caricabatterie, ciao ciao!)
  26. Chiavi a caso (se non sai cosa aprono...)
  27. Attrezzi da cucina inutilizzati (quel taglia-avocado che non usi mai.)
  28. Reggiseni sformati (hanno fatto il loro dovere!)
  29. Ombrelli rotti (non li riparerai.)
  30. Omaggi e articoli promozionali (se non li usi, lasciali perdere!)

... mentre se applicassi rigorosamente il secondo, suddiviso secondo i diversi ambienti della casa, farei davvero piazza pulita, soprattutto nel guardaroba!

Soggiorni
  • Vecchie riviste
  • Vecchi giornali
  • Cuscini usati
  • Vecchie coperte che non vuoi più
  • Articoli di arredamento stagionali
  • Articoli di arredamento che non si abbinano più all'arredamento della tua casa
  • Sottobicchieri che non usi più
  • Telecomandi per dispositivi elettronici che non usi più
  • Giocattoli per bambini o altri oggetti che non appartengono al soggiorno
  • Videocassette VHS
  • CD e audiocassette
  • Vecchi libri
  • Candele quasi completamente consumate
  • Giocattoli per animali domestici logori
  • Ciotole varie che raccolgono solo polvere
Camere da letto
  • Caricabatterie per vecchi dispositivi elettronici
  • Telecomandi per oggetti che non possiedi più
  • Batterie scariche
  • Ammassi di carta casuali
  • Cuscini usati
  • Lenzuola o coperte in cattive condizioni
  • Gioielli, accessori, scarpe che non hai indossato nell'ultimo anno
  • Reggiseni logori
  • Collant/calzini bucati
  • Biancheria intima logora
  • Vecchie magliette
  • Vecchi pigiami
  • Vecchi costumi da bagno
  • Vecchie tote bag, come le borse regalo "In omaggio con l'acquisto"
  • Scatole vuote (scatole da scarpe, scatole di dispositivi elettronici, ecc.)
  • Cappelli che non indossi più
  • Cappelli invernali, guanti o sciarpe che non hai indossato l'inverno scorso
  • Vestiti che non hai indossato nell'ultimo anno
  • Vestiti e scarpe che non ti vanno più
  • Vestiti danneggiati o macchiati
  • Borse che non usi più
  • Valigie che non usi più
  • Vecchi occhiali da vista
  • Giochi e puzzle a cui mancano dei pezzi
Bagni
  • Farmaci scaduti
  • Asciugamani/salviette logori
  • Articoli da toeletta che non usi da 6 mesi
  • Trucco che non metti più
  • Vecchie spazzole/pettini/elastici per capelli
  • Vecchie riviste
  • Vecchi spazzolini da denti
  • Campioncini di prodotti di bellezza
  • Mini-articoli da toeletta degli hotel
  • Bottiglie di articoli da toeletta vuote
  • Prodotti di bellezza scaduti
  • Strumenti di bellezza che non usi da un anno
  • Vecchi giocattoli da bagno
  • Saponette disintegrate
  • Vecchi deodoranti per ambienti
  • Vecchi poof da doccia
  • Rasoi vecchi
Cucina
  • Articoli di plastica per la conservazione degli alimenti (Tupperware) senza coperchio
  • Condimenti singoli dei ristoranti
  • Posate da asporto
  • Articoli scaduti dalla dispensa
  • Articoli scaduti dal frigorifero
  • Bicchieri souvenir di plastica
  • Tazze da caffè extra
  • Piatti da portata che non hai usato nell'ultimo anno
  • "Spazzatura" dal tuo cassetto della spazzatura
  • Cibo che non mangerai
  • Ritagli di ricette cartacee
  • Buoni sconto che non userai
  • Carte attaccate sulla parte anteriore del tuo frigorifero di cui non hai bisogno
  • Calamite pubblicitarie
  • Utensili da cucina usati raramente di cui hai più esemplari
  • Vecchi bicchieri per bambini
  • Articoli di carta stagionali (piatti, tovaglioli, bicchieri) che non userai
  • Pentole, padelle e utensili in cattive condizioni
  • Bicchieri di plastica monouso per medicinali
  • Bottiglie d'acqua danneggiate
  • Sacchetti di plastica extra per la spesa
  • Vecchie spugne per i piatti
  • Vasi che non usi mai
  • Barattoli di vetro vuoti
  • Cibo per animali domestici che agli animali domestici non piace
  • Spezie/salse/condimenti che probabilmente non userai

martedì 25 marzo 2025

Che titanica to-do list è la vita

Stasera condivido un post nato da una collaborazione tra @ugolize e @factanza e pubblicato, oltre che su Instagram, anche su LinkedIn.

Il carousel riporta gli scambi di battute seguenti...

– Finalmente ho finito la scuola, ora voglio godermi la vita.
– Ma no, hai 19 anni, devi pensare a laurearti.
– Finalmente mi sono laureato, ora posso godermi i miei anni d'oro.
– Hai 25 anni, devi trovarti un lavoro.
– Ora che ho trovato un buon lavoro, posso godermi la vita.
– Hai 30 anni, dovresti pensare a comprare una casa.
– Mi sono finalmente comprato una casa, ora posso godermi la mia indipendenza.
– Hai 35 anni, quando ci porti un nipotino?
50 years later
– Ora che sono vecchio e ho fatto tutto quello che dovevo fare, posso finalmente godermi la vita?
– Hai 85 anni, tra poco è l'ora di morire.

... e questo è il testo del post.

“La vita è solo una grande to-do list” 🫠
Fin da piccoli, la maggior parte di noi impara che per ottenere l’approvazione degli altri ed essere felici è necessario raggiungere degli obiettivi considerati fondamentali entro un determinato arco di tempo.
Abbiamo un obiettivo per ogni ambito della nostra vita fin da bambini.
A 2 devi saper parlare, a 6 a leggere e contare, a 9 eccellere in un hobby qualsiasi, a 13 devi avere già un’idea su cosa vuoi fare da grande perché ti tocca scegliere il percorso di studi, a 18 devi prendere la patente e il diploma.
A 22 la prima laurea, possibilmente a 24 la seconda. E anche una bella relazione con cui condividere i tuoi successi, una rete di amici interessanti con cui fare un sacco di cose condivisibili sui social.
A 30 anni? Beh a 30 anni, lo sanno tutti, è l’età che decreta se ce l’hai fatta. A 30 anni dovresti avere un buon lavoro che ti permetta di sostenere la famiglia.
Siamo tutti parte di questi meccanismi, chi più chi meno.
Per quanto possiamo mettere in discussione qualunque regola o uso sociale, le nostre aspirazioni rischiano ancora di essere condizionate da uno standard condiviso e ritenuto socialmente accettabile.
E se siamo in ritardo sulla tabella di marcia imposta dalla società, o semplicemente non siamo interessati a seguirla, cosa succede?
Finiamo per sentirci sbagliati, dimenticandoci che ognuno di noi ha i propri tempi e modalità per crescere e indirizzare la propria vita.
Sarebbe invece auspicabile ridurre la quantità di pressione e giudizio verso noi stessi e verso gli altri, sulla velocità in cui si raggiungono i traguardi e gli obiettivi della vita, assecondando, se lo si desidera, i propri tempi individuali.

Io i 35 li ho superati di parecchio, non ho avuto figli né a questo punto li avrò, purtroppo purtroppissimo... proprio perché, quando il mio orologio biologico stava per scaricarsi, io ero troppo presa dalla carriera alla quale aspiravo fin dai tempi dell'università, e che era iniziata tardi. E anche se non ho pargoli a cui badare, ci sono sempre dei doveri che mi chiamano. Parafrasando una canzone di Marracash feat. Fabri Fibra e Jake La Furia della quale ho appena scoperto l'esistenza, mi sa che mi riposerò solo quando sarò morta... :-/

[L'immagine che apre il post è uno scambio di battute tratto da Pesci Piccoli 2 dei @_the_jackal. E io mi sento molto affine a Fabio...]

domenica 23 marzo 2025

Dura la vita di noi "gufetti"...

Stasera condivido il testo di un post pubblicato su LinkedIn da Factanza Media...

Dormire poche ore a notte o alzarsi molto presto al mattino viene spesso considerato il segreto del successo.
La narrazione che ne consegue è che chi non riesce a ridurre il numero di ore dormite o si alza tardi al mattino è pigro, svogliato e che se non raggiunge gli obiettivi che si è prefissato è perché “è causa del suo male” non avendo la necessaria forza di volontà.
Tuttavia, il numero di ore necessarie di sonno e gli orari in cui si preferisce dormire non sono fattori puramente legati all’abitudine ma alle caratteristiche genetiche che variano da persona a persona. C’è chi riesce a dormire cinque ore a notte per essere pieno di energie e riposato, chi invece ne ha bisogno di 9-10; chi si alza presto naturalmente e chi invece è più produttivo lavorando la sera e svegliandosi tardi al mattino.
Le ore di sonno cambiano anche con l’età: gli adolescenti, ad esempio, avrebbero bisogno di dormire più di 8 ore a notte, da adulti la quantità di ore può diminuire. In ogni caso non bisognerebbe mai dormire meno di 4 ore a notte, per evitare conseguenze gravi per la salute psicofisica.
Etichettare chi ha bisogno di dormire molto o di alzarsi tardi come “pigro/a” e alimentare la retorica del dormire poco come motivo di successo non solo è sbagliato perché crea un senso di colpa in chi non si adegua a questo standard, ma anche perché la deprivazione cronica di sonno può portare, paradossalmente, a conseguenze negative per la produttività di cui tanto si millanta. La mancanza cronica di sonno può portare a mancanza di concentrazione, difficoltà a prendere decisioni, alterazione della memoria, stanchezza e con il tempo aumenta l’ansia e lo stress, tutti fattori che non solo fanno stare male la persona ma che non contribuiscono certo a svolgere bene le proprie attività.
Nella nostra società cerchiamo il più possibile di lavorare sfruttando le ore di luce naturale, ma la verità è che per far sì che le persone siano serene, motivate e anche produttive bisognerebbe rispettare il più possibile i ritmi circadiani di ognuno, anche introducendo, dove possibile, orari flessibili e più personalizzati.

... nonché la trascrizione del testo contenuto nel relativo carousel.

SVEGLIARSI PRESTO NON È PER TUTTI: LO DICE LA SCIENZA
SVEGLIA ALLE 7.
LAVORO DALLE 9 ALLE 18.
CENA ALLE 20:30.
A DORMIRE ALLE 23.
DA CAPO.
Questa è la routine che tante persone vivono ogni giorno. Anche se siamo abituati a considerarli "normali", però, non è detto che questi ritmi siano in realtà adatti a tutti.
Il nostro organismo è dotato di un meccanismo che consente a molte attività del nostro corpo di sincronizzarsi con il ciclo naturale del giorno e della notte. Si chiama RITMO CIRCADIANO ed è il nostro "orologio biologico", che regola attività fondamentali come i cicli del sonno, la produzione di ormoni e l'attività del sistema immunitario.
Influenzando gran parte delle attività corporee, il ritmo circadiano influenza anche le nostre energie e la nostra produttività. Questo ritmo, poi, non è uguale per tutti, ma varia da persona a persona. E questo ha importanti ripercussioni sul nostro rendimento durante la giornata.
Le persone si possono dividere in due "cronotipi" principali:
  • CRONOTIPO "ALLODOLA". Si svegliano presto, sono molto attivi di giorno, specialmente di mattina, mentre perdono energie a sera.
  • CRONOTIPO "GUFO". Faticano a svegliarsi, hanno bisogno di molto tempo per attivarsi al mattino, mentre diventano produttivi nel tardo pomeriggio e fino a notte fonda [Quando andavo all'università ero proprio così... poi col tempo ho raggiunto lo stato attuale, in cui mi alzo stanca e arrivo a sera annientata ;-) NdC]. E SONO PROPRIO I "GUFI" A ESSERE PARTICOLARMENTE PENALIZZATI DAI RITMI DELLA NOSTRA SOCIETÀ.
Gli orari imposti dal lavoro o dalla scuola possono risultare molto pesanti per i cronotipi "gufo" che, essendo biologicamente più produttivi di sera, non riescono a sfruttare al meglio le ore mattutine e finiscono spesso per rincorrere e adattarsi a dei ritmi che, semplicemente, non sono i loro.
Non rispettare il proprio "orologio biologico" può avere delle ripercussioni anche sulla propria salute. I cronotipo gufo, per questo motivo, sono più soggetti ad avere stili di vita sregolati: mangiano tardi, hanno più disturbi del sonno, ansia e stanchezza diurna (Fonte: Istituto Superiore di Sanità).
Anche se seguire i propri ritmi biologici è fondamentale per il proprio benessere, sono poche le persone che ci riescono, specialmente a causa dei ritmi imposti dal lavoro.
Chi lavora su turni può avere la cosiddetta "sindrome del turnista": a causa dei ritmi di lavoro irregolari, sviluppa insonnia, sonnolenza diurna o difficolta di concentrazione.
Imparare a conoscersi e ad assecondare i propri ritmi è importante per stare bene, ma può essere difficile riuscirci a causa del ritmo frenetico della nostra società. I ritmi sociali che regolano la nostra vita, però, non sono immutabili: se ci rendiamo conto che non aiutano il nostro benessere, bisogna rimetterli in discussione.

sabato 22 marzo 2025

Quello che può fare un insegnante

Oggi Galatea Vaglio, insegnante e divulgatrice nota sui social per le sue Pillole di Storia, ha pubblicato un post denso di amarezza e preoccupazione.

Qui la cosa si fa seria e delicata.
Perché il ministro Valditara vuole un regolamento apposito per i docenti che metta dei precisi paletti a quello che possono postare sul web.
Si parla di obbligo di avere un profilo chiuso (mi sa che al Ministero non conoscono l’esistenza degli screenshot e dei profili fake che possono insinuarsi comunque fra i tuoi amici).
Quello che però è aberrante è che io, che sono una lavoratrice come tutti, non possa, finito il mio orario di lavoro, smettere i panni della docente e scrivere e fare ciò che voglio.
Io non sono un membro del clero, che ha fatto voto di obbedienza ad un ordine: sono una donna che fa il suo lavoro un tot di ore al giorno, e poi ha la sua vita, le sue opinioni, i suoi hobby.
Devo tenere il profilo chiuso perché? Perché i miei alunni non vedano le foto in cui sono al mare in costume? Le battute che faccio? I miei ragionamenti e le mie prese di posizione, anche politiche?
Ciò che conta è cosa e come insegno a scuola. E non capisco perché i loro genitori sui social, per esempio, possono postare qualsiasi cosa, e io no, visto che loro, rispetto ai figlioli, hanno una responsabilità educativa maggiore e dovrebbero essere i primi a dare il buon esempio.
E poi il limite qual è? La mia foto in bikini? La mia foto ad una manifestazione? La mia battuta sul tempo? Perché qualche genitore potrebbe trovare inadeguato il fatto che io legga romanzi rosa o veda serie tv?
Qual è il limite, spiegatemelo.
E soprattutto io, per essere una insegnante degna, devo rinunciare ad avere una vita mia come ogni altro essere umano?

Fanpage.it spiega cosa vuol cambiare Valditara riguardo alla presenza degli insegnanti sui social, e perché questo non c'entra con il caso della maestra di una scuola per l'infanzia paritaria in provincia di Treviso sospesa perché aveva un profilo su OnlyFans. Riguardo a quest'ultima vicenda io sono d'accordo con Andrea: qua non si tratta di essere moralisti o bacchettoni, sta di fatto che il mestiere di insegnante è strettamente connesso a una funzione educativa la quale è ben poco compatibile con lo sfoggio delle proprie nudità su un profilo OnlyFans, peraltro pubblico e accessibile a tutti.

A proposito di Valditara, il ministero che presiede ha inviato a tutti i presidi una circolare raccomandando di non usare asterischi e schwa, solitamente adottati per un linguaggio più inclusivo di tutte le identità di genere, con la scusa che «Il loro impiego è in contrasto con le norme linguistiche e rischia di compromettere la comprensibilità della comunicazione istituzionale». A voler pensar male, si potrebbe avere il sospetto che il vero motivo sia ostacolare la fantomatica "teoria del gender" tanto invisa alle destre. Mi aspettavo che Vera Gheno, avendo peraltro un post sul linguaggio ampio fissato in alto nella sua bacheca Facebook, avrebbe detto la sua... e infatti ha scritto un articolo per Domani, che purtroppo è accessibile ai soli abbonati.

venerdì 21 marzo 2025

Io di yoga conosco solo il succo di frutta

Negli ultimi tempi su Facebook mi stanno comparendo spesso inserzioni sponsorizzate per invitarmi a provare lo "yoga facciale", che a quanto pare è una mano santa per ringiovanire i connotati. Perfino l'algoritmo ha capito che insistere a propormi lo yoga "full body", che pure mi farebbe taaaaanto bene, è fatica sprecata! ;-)

Scherzi a parte... Fidandomi del parere di una "facciamica" mi sono iscritta al canale YouTube de La Scimmia Yoga, ricco di video introduttivi a questa pratica, ma finora ho guardato solo i video più brevi. Questo con alcuni suggerimenti per mangiare e digerire meglio mi sembra piuttosto utile nonché accessibile, mentre i tre consigli per lo stress mostrati qui richiedono per essere seguiti un'agilità che non sono sicura di avere.

Dovrei iscrivermi in palestra, dovrei. Ma se anche non mi mancasse l'energia e la voglia, è il tempo che mi manca... AIUTO!!!

[L'immagine che apre il post è tratta da Freepik]

giovedì 20 marzo 2025

Non facciamoci del male!

Di recente ho seguito su LinkedIn Learning il corso Managing Your Emotions at Work (Gestire le proprie emozioni sul lavoro). Nella lezione dal titolo Una scorciatoia per l'auto-empatia, la docente Jay Fields ha presentato un concetto per me nuovo, dandomi di che riflettere.

Nel Buddismo c'è un concetto chiamato la seconda freccia. La prima freccia è la circostanza esterna che ti colpisce in modo doloroso: non ottenere la promozione, essere vittima di bullismo, mancare i tuoi obiettivi di vendita. La seconda freccia è quella che scagli contro te stesso perché ti senti come ti senti. È giudicarti stupido o debole per sentirti così. Un altro modo di pensare all'auto-empatia è quindi smetterla di scagliare le seconde frecce: le emozioni difficili sono già abbastanza dure, essere duro con te stesso per il fatto di provarle non ti aiuta a gestirle.

Il concetto viene approfondito un pochino di più nell'articolo The Second Arrow of Suffering (La seconda freccia della sofferenza) pubblicato sul sito di GR Therapy Group, del quale riporto qui di seguito la traduzione.

A tutti noi è capitato qualcosa di sconvolgente o deludente, e a volte ci sentiamo frustrati nei confronti di noi stessi o degli altri. Vorremmo che le cose potessero essere diverse. La nostra interpretazione degli eventi gioca un ruolo importante nel modo in cui li viviamo. Ad esempio, qualcuno al lavoro o a casa ha lasciato una pila di piatti sporchi nel lavandino. Lo noti e hai un'immediata reazione di fastidio. Quello che spesso accade dopo è che pensiamo: «Mi lasciano sempre un pasticcio da pulire, quante volte gli ho chiesto di pulire dopo essere passati, è chiaro che non gliene frega niente di me, perché non mi apprezzano mai?». Possiamo passare rapidamente da una situazione – qualcuno ci infastidisce, ci fa male il braccio, ci stiamo prendendo un raffreddore – allo sviluppo di emozioni e pensieri di tutti i tipi che hanno poco a che vedere con il problema originale.
Due frecce
La parabola della seconda freccia è una parabola buddista su come affrontare la sofferenza in modo più abile. I buddisti dicono che, ogni volta che subiamo una disgrazia, due frecce volano verso di noi. Essere colpiti da una freccia è doloroso. Essere colpiti da una seconda freccia è ancora più doloroso.
Il Buddha spiegò:
«Nella vita, non possiamo sempre controllare la prima freccia. Tuttavia, la seconda freccia è la nostra reazione alla prima. La seconda freccia è facoltativa».
Immagina di camminare in una foresta. All'improvviso, vieni colpito da una freccia. La prima freccia è un reale evento negativo, che può causare dolore. Ma non è ancora finita. C'è una seconda freccia. La seconda freccia porta più dolore e sofferenza. Puoi evitare la seconda? La seconda freccia rappresenta la nostra reazione all'evento negativo. È il modo in cui scegliamo di rispondere emotivamente. Di recente ho parlato con un'amica che era a casa con la sua famiglia malata. Lei, suo marito e i loro due figli piccoli erano tutti malati di COVID e in varie fasi della malattia e del recupero. Lei ha notato la propria reazione all'essere malata: le sembrava sbagliato e ingiusto, lei era una runner e non avrebbe dovuto rimanere bloccata con questo virus. I suoi figli, tuttavia, giocavano quando avevano un po' di energia e si riposavano quando non si sentivano bene. Hanno preso la malattia con filosofia e hanno reagito al modo in cui si sentivano in quel momento. Non gli piaceva essere malati, ma non si sono puniti mentalmente con discorsi su cosa avrebbe dovuto e non avrebbe dovuto essere. Stavano affrontando la prima freccia, non la seconda.
Evita la seconda freccia
Quindi, come eviti la seconda freccia? Per prima cosa, nota la prima freccia. Quando provi dolore emotivo, concediti di sentirlo. Potresti notare le tue frecce in altri modi, come frustrazione, irritazione e dolore emotivo o fisico. Poi, diventa consapevole e nota la tua reazione emotiva. Forse è il desiderio di urlare o lamentarti con qualcuno. Forse ti arrabbi con te stesso e rivolgi le tue emozioni verso l'interno, sentendoti come se non fossi abbastanza bravo o ci fosse qualcosa di sbagliato in te. Questa è la seconda freccia. Fai caso a quando aggiungi altro dolore e sofferenza. Infine, renditi merito per aver riconosciuto ed evitato la seconda freccia. Stai imparando una nuova risposta. Puoi liberare energia per circostanze che puoi controllare. Tuttavia, puoi sempre anche adattare la tua reazione, anche se non puoi controllare ciò che ti accade.
Probabilmente ci ritroviamo ad affrontare la seconda freccia della sofferenza molte volte durante il giorno. La storia non riguarda il negare la nostra reazione iniziale, ma l'avere una scelta su come procedere. Nel tempo, essere consapevoli di questa scelta e astenersi dallo scoccare infinite seconde frecce contro noi stessi può aiutarci a liberarci da molta sofferenza inutile.

mercoledì 19 marzo 2025

I settordici setacci di Gwendalyne

Ultimamente mi è capitato di sentirmi rivolgere delle critiche tanto più gravi in quanto assolutamente infondate. Avevo un vago ricordo di una citazione che raccomanda di tacere, se non si può dire qualcosa di buono, giusto, o qualcosa del genere... e per risalire alla fonte, anziché usare Google come avrei fatto un tempo, mi sono rivolta a ChatGPT. Questa è stata la risposta.

La citazione a cui stai pensando potrebbe essere attribuita a Socrate ed è conosciuta come la "prova dei tre filtri". Secondo questa idea, prima di parlare bisogna chiedersi:
  1. È vero? (Ciò che sto per dire è basato sulla verità?)
  2. È buono? (Porterà qualcosa di positivo o utile?)
  3. È utile? (Serve davvero dirlo?)

Passando, adesso sì, a Google ho verificato qui non soltanto che comunemente ci si riferisce ai "tre setacci" anziché ai tre filtri, ma pure che il filosofo greco, il quale peraltro non ci ha tramandato nulla di scritto, non c'entra mica. Infatti la parabola si trova all'interno dell'opera in parte autobiografica di Dan Millman, La via del guerriero di pace (Way of the Peaceful Warrior), da cui è stato tratto il film La forza del campione, e dove viene descritto l'incontro tra un uomo – al quale, vista la sua profonda saggezza, viene assegnato per l'appunto il nome di Socrate – e l'autore stesso.

Socrate aveva reputazione di grande saggezza. Un giorno venne qualcuno a trovarlo e gli disse:
«Sai cosa ho appena sentito sul tuo amico?»
«Un momento.» rispose Socrate. «Prima che me lo racconti, vorrei farti un test, quello dei tre setacci.»
«I tre setacci?»
«Prima di raccontare una cosa sugli altri, è bene prendersi il tempo di filtrare ciò che si vorrebbe dire. Lo chiamo il test dei tre setacci. Il primo setaccio è la verità. Hai verificato se quello che mi dirai è vero?»
«No… ne ho solo sentito parlare…»
«Molto bene. Quindi non sai se è la verità. Continuiamo col secondo setaccio, quello della bontà. Quello che vuoi dirmi sul mio amico, è qualcosa di buono?»
«Ah no! Al contrario.»
«Dunque…» continuò Socrate, «… vuoi raccontarmi brutte cose su di lui e non sei nemmeno certo che siano vere. Forse puoi ancora passare il test, rimane il terzo setaccio, quello dell’utilità. È utile che io sappia cosa avrebbe fatto questo amico?»
«No davvero.»
«Allora…» concluse Socrate, «… quel che volevi raccontarmi non è né vero, né buono, né utile; perché volevi dirmelo?»

Anche se il Socrate di Millman sembrava riferirsi più che altro alle maldicenze, trovo che la parabola sia applicabile anche a quello che è successo a me. Alla prossima occasione, sperando che ricapiti il più tardi possibile o meglio mai più, me la rivendo! :-)

[Tutto questo mi ha dato da pensare sul fatto che io, essendo una persona di pochissime parole, di setacci in genere me ne impongo ben più di tre: non solo quelli della verità, della bontà e dell'utilità, ma anche "seghe mentali" del tipo «Ma cosa vuoi che gli interessi?», «Se lo dico chissà cosa penseranno di me», eccetera. Per questo in genere taccio... ad eccezione di quelle rarissime occasioni in cui i filtri vanno tutti a farsi benedire e mi scappano dette cose delle quali poi mi pentirò per i giorni a venire ;-)]

martedì 18 marzo 2025

Noi vs "gli altri"

Stasera comincio con un aggiornamento sul caso di Guendalina Middei, nota sui social come Professor X, di cui ho scritto giovedì scorso. Il giorno successivo ha pubblicato il post seguente.

Ecco il «Verdetto» di Meta sulla pagina Professor X. Vi dico com’è finita. Innanzitutto lasciatemi dire una cosa: GRAZIE. Davvero. Grazie alle oltre 60 mila persone che mi hanno scritto, mandato messaggi d’affetto e condiviso il mio appello. Forse Meta se ne frega, ma per me ha significato TUTTO!
Alla fine il Team tecnico ha analizzato il mio caso e… niente. Le restrizioni alla pagina nonostante le accuse nei miei confronti fossero completamente false e infondate non sono state rimosse. L’oscuramento del mio libro non è stato rimosso. Il mio nome continua ad essere associato dal sistema a una cosa orrenda. Però, e c’è un però, posso tornare a publicare. Tutti i giorni, come ho sempre fatto. Fino a quando non cadranno queste limitazioni, molti non potranno più leggermi. Alcuni di voi non vedranno più i miei post. Alcuni post saranno bloccati. Altri rimossi. Ma lasciatemi dire una cosa.
Sapete perché amo tanto la letteratura russa? Perché la letteratura russa, tutta la letteratura russa, nasce per un motivo: come lotta alla censura. Quel libro completamente folle che è Il maestro e Margherita non è altro che un inno al Libero Pensiero quando avere un pensiero tuo ti faceva finire in prigione. O peggio. Sostakovich il Potere lo prende per il naso, e sa farlo talmente bene che quelli lo eleggono a musicista consacrato del regime.
Dostoevskij quando era in carcere scrisse: «essere un uomo tra gli uomini e non perdersi d’animo – ecco in che cosa consiste la vita.» Perché anche quanto tutto sembra o pare perduto, puoi rialzarti. E rinascere. Wabi sabi dicono invece i giapponesi: nulla è perfetto. C’è una crepa in ogni cosa. Ma è da lì che entra la luce. Un’ultima cosa: se non volete che sia un algoritmo a decidere se potete leggermi, potete cercarmi direttamente voi. Vi abbraccio tutti❤️

A me per fortuna i post di Guendalina continuano ad apparire nella timeline anche senza dover cercare direttamente la pagina. E dopo quell'accenno alla letteratura russa non mi sono certo meravigliata che, nel suo post di ieri, lei abbia criticato l'intervento del cantautore, nonché insegnante di materie letterarie in pensione, Roberto Vecchioni alla manifestazione "Una piazza per l'Europa" tenutasi sabato scorso in Piazza del Popolo a Roma.

Ieri mi è crollato un mito! Ma lo avete sentito il discorso di Roberto Vecchioni? «Adesso chiudete gli occhi e pensate ai nomi che vi dico: Socrate, Cartesio, Hegel e Marx; vi dico Shakespeare, Pirandello e Leopardi. Ma gli «altri» le hanno queste cose?» Sentire queste parole, da un cantante che stimavo moltissimo, mi ha spezzato il cuore!
E allora, per rispondere a Vecchioni, io vi dico Dostoevskij, Puskin, Tolstoj e Gogol… Vi dico Gibran, Mishima, Allende, Tagore! Vi dico che la cultura non ha nazionalità, confini, limiti o barriere. Vi dico che i miei migliori amici sono stati russi, giapponesi, americani. Non amo particolarmente l’America, ma la mia adolescenza non sarebbe stata la stessa senza Hemingway. Non avrei mai preso in mano una penna e iniziato a scrivere senza Virginia Woolf. E allora vi dico Steinbeck, Faulkner, Edgar Allan Poe e ci metto anche Philippe Roth!
Vi dico che la letteratura non significa UNA ma «INSIEME». Vi dico che l’arte non divide ma unisce, non separa ma avvicina, non si si scontra ma «incontra». Perché la cultura non è una gara, non è primato, podio o conquista. Le emozioni non hanno bisogno di salire su un podio, non fanno distinzioni tra «noi» e «loro». Non c’è verità che un cuore, da qui all’altro capo del mondo, non senta.
E infine vi dico un’ultima cosa: vi dico che ho trovato imbarazzante tutto questo! Perché il discorso di Vecchioni ci ha fatto tornare indietro di due secoli. Nell’Europa del «noi», i migliori, i più perfetti, gli unici detentori di bellezza, verità, e cultura, e gli «altri». E strumentalizzare la letteratura per far passare questo messaggio qua, significa non averne capito nulla, perché i libri, come le canzoni, sono sempre stati ponti e finestre e non muri.

E pure il titolare della pagina Come sorridere in un mondo contorto gliene ha dette, anzi scritte, quattro a Vecchioni.

Sul tema della guerra segnalo un punto di vista parecchio sensato, a dispetto della forma a dir poco elementare, espresso in questo video di CARTONI MORTI, al secolo Andrea Lorenzon.

P.S.: Colgo l'occasione per rispondere qui al commento lasciatomi da gg sotto il mio precedente post sul Professor X. Cosa voglia dire davvero "pace" è un quesito a dir poco complesso, e credo che nessuno possa in buona fede dirsi detentore di una verità assoluta in proposito. L'unica cosa che so è che riterrei oltremodo ingiusto che in nome della pace l'Ucraina dovesse rinunciare a parte del suo territorio (e non solo a quello) cedendolo all'invasore russo.

domenica 16 marzo 2025

Balla che ti passa

Fino a poco tempo fa c'era un video la cui visione aveva il potere di suscitarmi un immediato buonumore, quello di Hugh Grant che nel film Love Actually veste i panni del premier inglese e attraversa le stanze del numero 10 di Downing Street ballando scompostamente sulle note di Jump (For My Love) delle Pointer Sisters... ma di recente è stato soppiantato da un altro: quello che mostra il backstage del video di Chiamo io chiami tu, presentato a Sanremo da Gaia, in cui il coreografo spagnolo Carlos Diaz Gandia accompagna i passi con dei "suoni" oserei dire notevoli!!! :-D

Domenica scorsa la cantante è stata ospite a Che Tempo Che Fa, e la produzione del programma ha pensato bene di invitare anche il coreografo, dal momento che la sua performance era diventata virale.

In trasmissione lui si è limitato a danzare senza fare "versi", comunque le sue movenze le trovo irresistibili: è disinvolto e scatenato a dispetto del fatto di essere un tantino sovrappeso. Lungi da me voler fare bodyshaming, anzi... Ammetto di provare un pizzico d'invidia: pur essendo più longilinea rispetto a lui, seguo il ritmo sempre con l'eleganza di un elefante! E gli riconosco di essere riuscito nell'impresa di rendere in qualche modo interessante una canzone di per sé abbastanza scialba.

sabato 15 marzo 2025

Sul delitto di femminicidio come reato autonomo

All'indomani dell'ergastolo ad Alessandro Impagnatiello per il femminicidio di Giulia Tramontano e a Filippo Turetta per il femminicidio di Giulia Cecchettin – quei due crimini li ho trovati particolarmente odiosi per le circostanze in cui sono avvenuti – mi sono posta delle domande sulla reazione istintiva che avevo avuto: quella che si trattasse di sentenze giuste e sacrosante. Eppure l'articolo 27 della Costituzione italiana stabilisce che

La responsabilità penale è personale.
L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.
Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
Non è ammessa la pena di morte.

Ebbene, il carcere a vita di per sé va contro questi principi, e se scontato fino in fondo mi sembra equiparabile alla pena di morte, se non peggiore (e infatti sono previsti dei benefici tali da rendere l'ergastolo compatibile con la Costituzione, come spiegato qui riguardo al caso di Filippo Turetta). Per cui, quando il 7 marzo Lorenzo Tosa ha commentato la notizia che il reato di femminicidio sarà punito con l'ergastolo in qualunque caso con le parole «Pare che anche Meloni “abbia fatto cose buone”. E quella volta a decennio che accade bisogna avere l’onestà intellettuale di riconoscerlo», mi sono trovata in disaccordo con lui come mai prima d'ora.

Citando Il Post...

Il disegno di legge appena approvato dal Consiglio dei ministri prevede di emendare il codice penale italiano introducendo un nuovo articolo, il 577-bis, formulato come segue:
Chiunque cagiona la morte di una donna, quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà, o, comunque, l’espressione della sua personalità, è punito con l’ergastolo. Fuori dei casi di cui al primo periodo, si applica l’articolo 575.
L’articolo 575 è quello sul reato di omicidio, attualmente punibile con una pena di almeno 21 anni di reclusione. Significa che, in assenza delle circostanze che possano caratterizzare l’omicidio di una donna come “femminicidio”, continuerà a venire applicato il reato di omicidio.

Nell'episodio uscito martedì scorso del suo podcast Tienimi Bordone, il cui ascolto è riservato a noi abbonati a Il Post, Matteo Bordone ha letto la dichiarazione del presidente Meloni al riguardo...

Oggi il Governo compie un altro passo avanti nell’azione di sistema che sta portando avanti fin dal suo insediamento per contrastare la violenza nei confronti delle donne e per tutelare le vittime. Il Consiglio dei ministri ha varato un disegno di legge estremamente significativo, che introduce nel nostro ordinamento il delitto di femminicidio come reato autonomo, sanzionandolo con l’ergastolo, e prevede aggravanti e aumenti di pena per i reati di maltrattamenti personali, stalking, violenza sessuale e revenge porn. Norme che considero molto importanti e che abbiamo fortemente voluto per dare una sferzata nella lotta a questa intollerabile piaga. Ringrazio i Ministri che hanno lavorato al provvedimento e che ci hanno permesso di raggiungere, alla vigilia della Festa della Donna, questo importante risultato.

... mettendo in sottofondo Eye Of The Tiger, che riteneva in linea con i toni trionfalistici.

Io quella del governo l'ho trovata una mossa propagandistica e nulla più, a maggior ragione perché è dimostrato che l'inasprimento delle pene non costituisce un deterrente abbastanza efficace da ridurre in modo significativo l'incidenza di reati di questo genere: se chi si accinge a commetterli fosse in grado di valutarne le possibili conseguenze, sono abbastanza sicura che desisterebbe (mentre uno che, ad esempio, progetta un furto con scasso e sa che se gli va male corre il rischio di finire al gabbio per un bel po' di anni, ci pensa non due ma mille volte).

Sull'Huffington Post è stato pubblicato l'articolo La donna non è migliore dell’uomo. Perché il reato di femminicidio non va bene, di Marta De Vivo, che demolisce l'iniziativa (ce ne sarebbero anche degli altri, ma dietro paywall).

Last but non least, oggi l'avvocato Angelo Greco ha pubblicato un video per spiegare perché la nuova legge sul femminicidio non è ingiusta, perché proteggere le donne dalla violenza è un dovere, ma è incostituzionale, perché una legge che si concentra esclusivamente sul genere rischia di violare il principio di uguaglianza costituzionale, creando tutele diseguali e pericolosi precedenti giuridici. Il suo ragionamento l'ho trovato alquanto condivisibile, tranne nel punto in cui afferma «se domani una sola e sottolineo una sola donna uccidesse il suo uomo proprio in quanto maschio, che magari lei vede come prevaricatore, sarebbe irragionevole e incostituzionale non prevedere un'analoga tutela». Ecco, fermo restando che l'omicidio è un atto terribile in ogni caso, mi sembra che ci sia una certa differenza tra un uomo che uccide una donna perché non vuole sottostare al volere di lui, e una donna che uccide un uomo perché esasperata dalle sue prevaricazioni.