lunedì 23 maggio 2022

Trent'anni dopo

Oggi, trentesimo anniversario della strage di Capaci che costò la vita al noto magistrato antimafia Giovanni Falcone, alla moglie Francesca Morvillo e a tre agenti della scorta, rievoco quel sabato pomeriggio di fine maggio in cui la ragazza non ancora sedicenne che ero si rese conto con un'evidenza agghiacciante delle atrocità a cui poteva arrivare la criminalità organizzata. Ero a casa, con tutta la famiglia, e seguivamo ammutoliti i notiziari. Uno sgomento che per quanto mi riguarda sarebbe stato superato, forse, soltanto da quello che avrei provato l'11 settembre di nove anni dopo.

Nei giorni successivi a quel lugubre 23 maggio, a scuola, i docenti, soprattutto la prof di Storia e Filosofia alla quale devo una parte non trascurabile del mio attuale senso civico, avrebbero provato per quanto possibile ad aiutarci a capire quello che a noi adolescenti fino ad allora abbastanza spensierati sembrava assurdamente incomprensibile.

Ma non era ancora finita: di lì a neanche due mesi Paolo Borsellino avrebbe fatto la stessa terribile fine del collega e amico, in via d'Amelio a Palermo, sotto casa di sua madre, sia pur con modalità un po' differenti. Benché non sia giusto né abbia senso fare una sorta di "classifica del coraggio", non posso fare a meno di pensare che, dopo quello che era capitato a Falcone, Borsellino sia andato avanti per la sua strada con l'angosciosa sensazione di essere già un morto che camminava.

Da allora, dopo Capaci e via d'Amelio, di stragi mafiose altrettanto eclatanti non ce ne sono più state. E molti esponenti di spicco di Cosa Nostra, tra i quali "il capo dei capi" Totò Riina, sono stati assicurati alla giustizia. Vuol forse dire che il sacrificio delle vittime degli attentati, con la sua potentissima valenza anche simbolica, è davvero servito a debellare il male contro cui combattevano, e che la mafia è stata di fatto sconfitta? C'è poco da essere ottimisti, soprattutto dopo aver letto le parole del professor Guido Saraceni.

Negli anni successivi, quando il potere trovò un nuovo e definitivo assetto, la mafia mise da parte le bombe, lasciando la netta impressione di non essere affatto scomparsa, ma di aver semplicemente stipulato l’accordo giusto, il patto più conveniente e proficuo, con chi di dovere.
Se non ne siete convinti, vuol dire che avete bisogno di ripassare la cronaca giudiziaria sui rapporti tra potere politico e potere mafioso – una storia drammatica e, di per sé, parecchio eloquente.

2 commenti:

  1. Sto leggendo in questi giorni Solo è il coraggio, il romanzo su Falcone scritto da Roberto Saviano. È vero che Borsellino sapeva di essere il prossimo, ma anche Falcone sapeva da tempo quale sarebbe stata la sua fine, tanto è vero che dopo il fallito attentato dell'Addaura tentò in ogni modo di allontanare da sé Francesca Morvillo, insistendo perché andasse a vivere altrove.
    C'è, a questo proposito, uno struggente dialogo tra il giudice e sua sorella, Maria Falcone. Quest'ultima cerca di spiegargli quanto sia assurda, agli occhi di Francesca, quella pretesa. Lui replica cercando di spiegare alla sorella le ragioni, sublimate nella celebre frase: "Io ormai sono un cadavere ambulante."
    Falcone, come Borsellino, sapeva che il suo destino era segnato, non sapeva solo il quando.

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    1. Sì, in effetti ricordavo la frase sul cadavere ambulante. Devo ammettere che la mia percezione su Borsellino risulta falsata dal fatto che, mentre l'attentato a Falcone fu qualcosa di clamoroso che mi colse del tutto impreparata, quello che è successo a Borsellino in qualche modo è stato meno inaspettato, sempre dal mio punto di vista. (Per non parlare di tutte le vittime di mafia assassinate prima e dopo di loro in maniera anche più efferata, ma non così eclatante)

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