giovedì 7 settembre 2023

Lavoro per vivere, o vivo per lavorare?

[Mi sono resa conto che di post quasi con lo stesso titolo ne avevo già pubblicati due nell'ultimo anno o poco più]

Oggi aprendo LinkedIn mi sono imbattuta in questo post di Legolize.

[A proposito, di recente c'è stato un rebranding: come annunciato dal fondatore Mattia Marangon nella sua newsletter Edamame, «Ebbene sì, basta Lego, da adesso abbiamo i nostri personaggi. Di annunci ne abbiamo fatti un po’, se ne volete uno bello romanzato lo trovate qui, se ne volete uno un pelo più tecnico qui»]

Mi sono limitata ad aggiungere una reaction ma ho evitato di diffondere il post, anche se avrei tanto voluto farlo, perché su LinkedIn tra i miei contatti ho colleghi e superiori, non sono granché attiva, e il fatto che condividessi un post del genere avrebbe potuto dare particolarmente nell'occhio mettendomi in cattiva luce... comunque il contenuto lo trovo sacrosanto. Per dire, stasera ci ho messo più di un'ora per tornare a casa: a quasi due settimane dal ritorno al lavoro in presenza, dopo i primi giorni relativamente tranquilli, il traffico è tornato a livelli allucinanti! Durante la settimana, di tempo da dedicare a me stessa, alla mia salute e al mio benessere me ne rimane ben poco.

Poiché capita a fagiuolo, riporto qui di seguito il testo del post dello scrittore e politico di sinistra pescarese Giovanni Di Iacovo, che mi onoro di avere tra i miei "facciamici".

Che sia trascorso a casa o in qualche meta turistica, termina in questi giorni il periodo delle vacanze estive, unico periodo di assenza dalla produttività che sia psicologicamente percepito come “autorizzato” e non venga vissuto con eccessivo senso di colpa perché in fondo “vanno in vacanza anche i miei colleghi”.
Spesso, però, l'agognato l’effetto di prosciugare tutto lo stress e la tensione accumulati durante l’anno non avviene e si finisce per tornare alla quotidianità lavorativa stanchi come prima se non di più.
Ciò segnala che forse c’è bisogno di ripensare la struttura stessa dell’anno lavorativo e il nostro approccio agli impegni.
Nella nostra società capitalista votata alla performatività costante e alla competizione, non c’è tempo per fermarsi e qualunque attività non produttiva è bollata come inutile e, quindi, nel farla si genera in noi un surreale ma strisciante senso di colpa. Il tempo dedicato a se stessi o alle proprie passioni è un'opzione terribilmente controcorrente quando in realtà potrebbe essere l'unico modo che abbiamo per fermare la ruota da criceti che è diventato il nostro cervello.
A peggiorare la situazione, il precariato che spinge a mostrarsi sempre disponibili, efficienti e servizievoli nella speranza di essere confermati alla scadenza del contratto e la partita IVA che, pur con i vantaggi della flessibilità, impone spesso di lavorare più dei dipendenti e mette di fronte alla scelta tra qualche giorno di vacanza o il guadagno.
Solo che, quando le ferie alla fine arrivano, è difficile goderne a pieno perché il cervello non è un interruttore che si possa accendere e spegnere a piacimento, e spesso rimane irrequieto, incapace di lasciar andare il freno da un giorno all'altro. Perché non siamo più abituati a non fare niente, ad avere quelle pause dove possano germogliare a sorpresa interessi e comprensioni di sé. Bisogna, quindi, ripensare non solo la struttura della settimana lavorativa, ma anche il valore culturale che alla vita professionale noi attribuiamo.
Non dobbiamo considerare il tempo libero un vuoto a perdere o da riempire con altre forme di consumo e di distrazione ma semplicemente come tempo dedicato a se stessi e ai propri interessi, facendolo diventare parte del quotidiano, un diritto umano per consentire a tutte e tutti di essere un po' più in controllo della propria vita.

1 commento:

  1. Una citazione che ho raccolto tempo fa:
    «OTTIMISTA. E qual è l’idea che essa porterà alla vittoria?
    CRITICONE. L’idea che dio ha creato gli uomini non perché consumino o producano, ma perché siano uomini. Che i viveri non sono il vivere. Che lo stomaco non deve saltare in testa alla testa. Che la vita non deve essere fondata sull’esclusività degli interessi materiali. Che l’uomo è stato collocato nel tempo per avere tempo, e non per arrivare da qualche parte con le gambe prima che col cuore.» tratto da “Gli ultimi giorni dell’umanità” di Karl Kraus, (E.) Adelphi, 2022, a cura di Ernesto Braun e Mario Carpitella, pag. 182-183

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