In occasione della scomparsa dell'ex calciatore e allenatore di calcio serbo Siniša Mihajlović, stroncato a soli 53 anni dalla leucemia mieloide acuta che gli era stata diagnosticata nel 2019, si sono sprecati i commenti del tipo «Ha perso la sua battaglia contro la malattia». Il drammaturgo Fabrizio Sinisi ha espresso un netto giudizio negativo nei confronti dell'utilizzo del "vocabolario bellico" riguardo alla malattia in un'uscita della newsletter di Domani dal titolo assai eloquente: La malattia non è una lotta, neanche per Mihajlović.
Io credo che la replica migliore a questa sia pur legittima presa di posizione l'abbia data due anni fa lo stesso mister, il quale il 13 luglio 2019, durante la conferenza stampa convocata per comunicare le sue condizioni di salute, aveva dichiarato...
Ricevere la notizia della malattia è stata una bella botta e sono rimasto due giorni chiuso in camera a piangere e a riflettere. Mi è passata tutta la vita davanti... Ora che farò? Rispetto la malattia, ma la guarderò negli occhi, la affronterò a petto in fuori e so già che vincerò questa sfida, non vedo l'ora di andare in ospedale: prima comincio le cure e prima finisco. La leucemia è in fase acuta, ma attaccabile: ci vuole tempo, ma si guarisce. Non voglio far pena a nessuno, ma spero che da questa storia tutti capiscano due cose: nessuno è indistruttibile e la prevenzione è importante. Nella mia vita ho sempre dovuto combattere, nessuno mi ha regalato nulla e sono sicuro che da questa esperienza ne uscirò come un uomo migliore.
... in questa intervista rilasciata al Corriere a novembre dell'anno dopo:
Sinisa Mihajlovic, le sembra giusto che la lotta contro il cancro venga sempre definita come una guerra, come una battaglia da vincere?
«Oggi, solo oggi, capisco la domanda. Ammalarsi non è una colpa. Succede, e basta. Ti cade il mondo addosso. Cerchi di reagire. Ognuno lo fa a suo modo. La verità è che non sono un eroe, e neppure Superman. Sono uno che quando parlava così, si faceva coraggio. Perché aveva paura, e piangeva, e si chiedeva perché, e implorava aiuto a Dio, come tutti. Pensavo solo a darmi forza nell’unico modo che conosco. Combatti, non mollare mai».
E chi non ce la fa?
«Non è certo un perdente. Non è una sconfitta, è una maledetta malattia. Non esiste una ricetta, io almeno non ce l’ho. Tu puoi sentirti un guerriero, ma senza dottori non vai da nessuna parte. L’unica cosa che puoi fare è non perdere voglia di vivere. Il resto non dipende da noi».
In questa triste circostanza molti si sono affrettati a ricordare la sua amicizia mai rinnegata nei confronti di Željko Ražnatović, noto con il soprannome di "Arkan la Tigre", che si rese autore di numerosi crimini di guerra durante le guerre jugoslave. A tal proposito, Mihajlović aveva già detto la sua nel 2009 al Corriere di Bologna (in quel periodo allenava la squadra della città)...
Rifaresti tutto ciò che hai fatto in quegli anni, compreso il necrologio per Arkan?
«Lo rifarei, perché Arkan era un mio amico: lui è stato un eroe per il popolo serbo. Era un mio amico vero, era il capo degli ultras della Stella Rossa quando io giocavo lì. Io gli amici non li tradisco né li rinnego. Conosco tanta gente, anche mafiosi, ma non per questo io sono così. Rifarei il suo necrologio e tutti quelli che ho fatto per altri».
Ma le atrocità commesse?
«Le atrocità? Voi parlate di atrocità, ma non c’eravate. Io sono nato a Vukovar, i croati erano maggioranza, noi serbi minoranza lì. Nel 1991 c’era la caccia al serbo: gente che per anni aveva vissuto insieme da un giorno all’altro si sparava addosso. È come se oggi i bolognesi decidessero di far piazza pulita dei pugliesi che vivono nella loro città. È giusto? Arkan venne a difendere i serbi in Croazia. I suoi crimini di guerra non sono giustificabili, sono orribili, ma cosa c’è di non orribile in una guerra civile?»
Sì, ma i croati...
«Mia madre Viktoria è croata, mio papà serbo. Quando da Vukovar si spostarono a Belgrado, mia mamma chiamò suo fratello, mio zio Ivo, e gli disse: c’è la guerra mettiti in salvo, vieni a casa di Sinisa. Lui rispose: perché hai portato via tuo marito? Quel porco serbo doveva restare qui così lo scannavamo. Il clima era questo. Poi Arkan catturò lo zio Ivo che aveva addosso il mio numero di telefono. Arkan mi chiamò: "C’è uno qui che sostiene di essere tuo zio, lo porto a Belgrado". Non dissi niente a mia madre, ma gli salvai la vita e lo ospitai per venti giorni».
Hai nostalgia della Jugoslavia?
«Certo, di quella di Tito. Slavi, cattolici, ortodossi, musulmani: solo il generale è riuscito a tenere tutti insieme. Ero piccolo quando c’era lui, ma una cosa ricordo: del blocco dei Paesi dell’Est la Jugoslavia era il migliore. I miei erano gente umile, operai, ma non ci mancava niente. Andavano a fare spese a Trieste delle volte. Con Tito esistevano valori, famiglia, un’idea di patria e popolo. Quando è morto la gente è andata per mesi sulla sua tomba. Con lui la Jugoslavia era il paese più bello del mondo, insieme all’Italia che io amo e che oggi si sta rovinando».
Sei un nazionalista?
«Che vuol dire nazionalista? Di sicuro non sono un fascista come ha detto qualcuno per la faccenda di Arkan. Ho vissuto con Tito, sono più comunista di tanti. Se nazionalista vuol dire patriota, se significa amare la mia terra e la mia nazione, beh sì lo sono».
... poi nell'intervista più recente di cui sopra...
Ricorda il primo incontro con Zeljko Raznatovic, detto Arkan?
«Quando io giocavo nel Vojvodina, al termine di una partita combattuta l’avevo insultato non sapendo chi fosse. Quando mi ingaggiano alla Stella Rossa, mi convoca nella sua villa. Pensavo mi volesse ammazzare. Invece fu gentile, affabile. “Qualsiasi cosa ti serva, Sinisa, sai che puoi venire da me. Ti lascio il mio telefono”. Nei miei anni a Belgrado l’ho frequentato per circa 200 sere all’anno».
La fascinazione del male?
«Forse all’inizio c’era anche quello, poi diventammo davvero amici. Quando morì, pubblicai il famoso necrologio che mi ha attirato tante critiche per il mio amico Zeljko, non per il comandante Arkan, capo delle Tigri».
Vuole che le legga i crimini di guerra del suo amico?
«Non condividerò mai quel che ha fatto, e ha fatto cose orrende. Ma non posso rinnegare un rapporto che fa parte della mia vita, di quel che sono stato. Altrimenti sarei un ipocrita».
... ed è ritornato sull'argomento nella sua autobiografia, La partita della vita, edita da Solferino e scritta insieme al giornalista Andrea Di Caro, vicedirettore della Gazzetta.
Il capitolo Arkan è un pezzo della sua vita, c’è poco da fare. E cosa ha significato per lui, giovane calciatore emergente, anzi proprio molto forte, in una Jugoslavia orfana di Tito e in preda a una malavita piuttosto dura, lo spiega parola dopo parola. La prima volta con Arkan fu uno scontro a muso duro, minacce reciproche a fine partita: Sinisa giocatore della Vidiova, Arkan (era in panchina) capo della tifoseria della Stella Rossa (e non solo). Un amico gli dice, «ma sei matto? Sai chi è lui?». «Sì, uno stronzo, ecco chi è». Poi seriamente: «No, non lo so, chi sarebbe?». «Quello è Arkan. Quello ti ammazza...». Il nome mi fa correre un brivido lungo la schiena. Zeljko Raz Natovic, passato alla storia come la Tigre Arkan, era il capo dei Delije, gli Eroi, il gruppo di ultras più estremi e violenti della Stella Rossa. Ma non era solo questo. Aveva una fedina penale più sporca del catrame, era un noto e pericoloso pregiudicato. Sbircio fuori dalla finestrella dello spogliatoio e lo vedo che gira, guardandosi intorno, con una pistola in mano. Mi sta cercando». Scapperà. Nella partita di ritorno l’allenatore esclude Sinisa, per non fargli correre rischi. Lui però va lo stesso, siede in tribuna e dopo la fine va a mangiare un gelato fuori dallo stadio: è la gelateria di Arkan, che però non lo riconosce. Il terzo incontro è decisivo perché Sinisa è stato acquistato dalla Stella Rossa, guidata da Boskov. Il battesimo di fuoco. Visita a domicilio. «Arkan fu gentile, affabile, alla mano. Simpatico. Quando era tranquillo, sapeva essere piacevole. Un uomo totalmente diverso dal sanguinario leader di milizie durante il conflitto che avrebbe devastato il Paese». Non volendo, eccolo sotto la sua protezione. «Qualsiasi cosa ti serva, Sinisa, sai che puoi venire da me. Ti lascio il mio telefono». Sinisa non lesina particolari. «Il nostro rapporto si basava essenzialmente sul calcio. Con lui non parlavo mai di politica. E non l’ho mai visto in azione o sparare. Però l’ho visto arrabbiarsi un paio di volte: bastava guardarlo negli occhi e ti faceva venire la pelle d’oca».
Pagine da leggere. Durante la guerra succedono cose orrende. L’amico d’infanzia croato che minaccia i genitori, lo zio croato che vuole uccidere il padre, Arkan che lo «grazia» perché il nipote è Sinisa… E «grazie» a lui potrà tornare a vedere la sua Borovo, distrutta. Si parla del conflitto, «partito dal Kosovo», «durante i bombardamenti odiavo gli americani», «andai a parlare con Massimo D’Alema», e parlò pure con Milosevic che lo iscrisse a tradimento nel suo partito, «ma poi ammise l’errore, ero incazzatissimo», e tanto altro. Fino allo striscione «Onore alla Tigre Arkan» sventolato dai tifosi laziali nonostante lui non volesse e quindi rinnegato. Quello sì. Ma non il necrologio, che spiega la posizione intima di Sinisa, «non lo feci per il militare Arkan, il feroce comandante delle Tigri. Lo feci per Zeljko. Possono i due piani rimanere separati? Non lo so, è un tema controverso». E ancora, «ieri come oggi, non ho mai nascosto i suoi crimini efferati. Quelli restano. Sono orribili. E li condanno. Come tutti i crimini commessi, da una parte e dall’altra». Infine la chiosa. «Non ho mai difeso la vita violenta di Arkan e tantomeno le nefandezze di cui si è macchiato guidando le sue Tigri. Ma era un mio amico, mi voleva bene. Gliene ho voluto anche io. Quando è morto potevo far finta di niente (…) l’ho voluto salutare. Mettendoci la faccia, come sempre. Sono a posto con la mia coscienza». Questo e tanto di più per chi non intende fermarsi alla superficie del mondo Mihajlovic, semplicemente un uomo.
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