Oggi, trentesimo anniversario della strage di Capaci che costò la vita al noto magistrato antimafia Giovanni Falcone, alla moglie Francesca Morvillo e a tre agenti della scorta, rievoco quel sabato pomeriggio di fine maggio in cui la ragazza non ancora sedicenne che ero si rese conto con un'evidenza agghiacciante delle atrocità a cui poteva arrivare la criminalità organizzata. Ero a casa, con tutta la famiglia, e seguivamo ammutoliti i notiziari. Uno sgomento che per quanto mi riguarda sarebbe stato superato, forse, soltanto da quello che avrei provato l'11 settembre di nove anni dopo.
Nei giorni successivi a quel lugubre 23 maggio, a scuola, i docenti, soprattutto la prof di Storia e Filosofia alla quale devo una parte non trascurabile del mio attuale senso civico, avrebbero provato per quanto possibile ad aiutarci a capire quello che a noi adolescenti fino ad allora abbastanza spensierati sembrava assurdamente incomprensibile.
Ma non era ancora finita: di lì a neanche due mesi Paolo Borsellino avrebbe fatto la stessa terribile fine del collega e amico, in via d'Amelio a Palermo, sotto casa di sua madre, sia pur con modalità un po' differenti. Benché non sia giusto né abbia senso fare una sorta di "classifica del coraggio", non posso fare a meno di pensare che, dopo quello che era capitato a Falcone, Borsellino sia andato avanti per la sua strada con l'angosciosa sensazione di essere già un morto che camminava.
Da allora, dopo Capaci e via d'Amelio, di stragi mafiose altrettanto eclatanti non ce ne sono più state. E molti esponenti di spicco di Cosa Nostra, tra i quali "il capo dei capi" Totò Riina, sono stati assicurati alla giustizia. Vuol forse dire che il sacrificio delle vittime degli attentati, con la sua potentissima valenza anche simbolica, è davvero servito a debellare il male contro cui combattevano, e che la mafia è stata di fatto sconfitta? C'è poco da essere ottimisti, soprattutto dopo aver letto le parole del professor Guido Saraceni.
Negli anni successivi, quando il potere trovò un nuovo e definitivo assetto, la mafia mise da parte le bombe, lasciando la netta impressione di non essere affatto scomparsa, ma di aver semplicemente stipulato l’accordo giusto, il patto più conveniente e proficuo, con chi di dovere.
Se non ne siete convinti, vuol dire che avete bisogno di ripassare la cronaca giudiziaria sui rapporti tra potere politico e potere mafioso – una storia drammatica e, di per sé, parecchio eloquente.
Sto leggendo in questi giorni Solo è il coraggio, il romanzo su Falcone scritto da Roberto Saviano. È vero che Borsellino sapeva di essere il prossimo, ma anche Falcone sapeva da tempo quale sarebbe stata la sua fine, tanto è vero che dopo il fallito attentato dell'Addaura tentò in ogni modo di allontanare da sé Francesca Morvillo, insistendo perché andasse a vivere altrove.
RispondiEliminaC'è, a questo proposito, uno struggente dialogo tra il giudice e sua sorella, Maria Falcone. Quest'ultima cerca di spiegargli quanto sia assurda, agli occhi di Francesca, quella pretesa. Lui replica cercando di spiegare alla sorella le ragioni, sublimate nella celebre frase: "Io ormai sono un cadavere ambulante."
Falcone, come Borsellino, sapeva che il suo destino era segnato, non sapeva solo il quando.
Sì, in effetti ricordavo la frase sul cadavere ambulante. Devo ammettere che la mia percezione su Borsellino risulta falsata dal fatto che, mentre l'attentato a Falcone fu qualcosa di clamoroso che mi colse del tutto impreparata, quello che è successo a Borsellino in qualche modo è stato meno inaspettato, sempre dal mio punto di vista. (Per non parlare di tutte le vittime di mafia assassinate prima e dopo di loro in maniera anche più efferata, ma non così eclatante)
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