Stasera condivido la traduzione dal francese di un post scritto dallo psichiatra Christophe André la cui lettura mi è stata consigliata da una gentile lettrice di questo blog che ha intrapreso con la sottoscritta un breve scambio epistolare – un modo vintage per dire "via e-mail" ;-) – dopo aver letto questo mio post. Che dire, anche se in sostanza non c'è scritto nessun concetto che qualunque persona dotata di buonsenso non possa esprimere, siccome in certi frangenti la lucidità necessaria latita, leggerlo mi ha fatto bene.
Heautontimorumenos, ovvero 50 sfumature di odio
Al giorno d'oggi, nella vita di coppia, capita spesso che i partner si separino. Circa una coppia sposata su due, con un picco intorno al sesto anno. E tra le coppie non sposate, quindi "in prova", le cifre sono molto più alte. In tutte le coppie di una vita umana, le separazioni rappresentano dunque la regola e non l'eccezione.
Quindi, abbiamo interesse a sapere come gestirle e digerirle, queste separazioni!
Anche se ci si lascia per delle buone ragioni, non è così facile, perché ci sono le nostre emozioni. Sì, è logico: più affetto o passione ci sono stati un tempo, più emozioni ci saranno al momento della separazione. In particolare queste tre: tristezza, preoccupazione, rabbia.
Tristezza perché è la fine di una bella storia, o di una storia che avrebbe potuto essere bella. Preoccupazione perché ci chiediamo che ne sarà di noi, se riusciremo a trovare qualcun altro, ecc. E rabbia perché, comunque, siamo arrabbiati con l'altro...
Delle tre, la rabbia è la più difficile da elaborare. La tristezza e la preoccupazione sono affari nostri; esse sono la prova che il legame si è spezzato. La rabbia, al contrario, dimostra che questo legame non si è spezzato. L'altro non c'è più fisicamente, ma è peggio, è lì mentalmente, pensiamo a lui tutto il tempo, vogliamo fargli del male.
Esistono 50 sfumature di odio, di tutti i gradi: minori come il risentimento o il rancore, maggiori come la rabbia o l'odio.
L'odio, in tutte le sue forme, è una forma di schiavitù; continuiamo a dipendere dal ricordo del nostro ex e, così facendo, facciamo del male a noi stessi. È ciò che il poeta latino Terenzio chiama, in una delle sue opere teatrali, con un termine greco colto: Heautontimorumenos, l'impulso a punire sé stessi [è inevitabile stabilire un nesso tra questo e il concetto della "seconda freccia" di cui ho parlato qui, NdC]. Siamo noi gli organizzatori e gli attori principali della nostra sofferenza e della sua cronicizzazione.
E come si fa a uscire dall'odio? Beh, possiamo uscirne vincitori: perdonando, dandoci spiegazioni e poi occupandoci di scrivere il resto della nostra vita invece di cercare di cancellare ciò che è andato storto. Cerchiamo di applicare i consigli dei manuali di sviluppo personale per le coppie.
Possiamo uscirne dal basso, attraverso il disprezzo («Era un poveraccio, una poveretta!») oppure attraverso la vendetta («Farò vedere a quella sgualdrina, a quel cane rognoso, quanto mi è costato avermi fatto perdere 5 anni di vita al suo fianco»).
Possiamo anche scegliere la via dell'oblio...
Sì, l'oblio non è male. Non si tratta di amnesia, intendiamoci! Nell'amnesia cancelliamo. Nell'oblio ricordiamo, ma volontariamente, quando richiamiamo il ricordo; il resto del tempo rimane conservato nella quiete, lontano dalla nostra consapevolezza.
Dimentichiamo, ma ricordiamo comunque la lezione, per non ripetere gli stessi errori nelle avventure future o nel caso in cui l'ex torni a bussare alla porta.
Nell'odio non c'è oblio, ci avveleniamo con il nostro dolore, ci distruggiamo odiando il nostro ex. Ma la saggezza, anziché distruggere sé stessi, consisterebbe nell'imparare dal proprio dolore.
Questo è il cammino che ci insegna il filosofo greco antico Epitteto (Pensieri, XI):
«Incolpare gli altri dei propri mali è tipico di chi non ha educazione filosofica; chi l'ha intrapresa incolpa sé stesso; chi l'ha completata non incolpa né gli altri né sé stesso».
[La "colonna sonora" di questo post non poteva che essere di Riccardo Cocciante]