Quando ho iniziato a studiare francese alle scuole medie, ho imparato ben presto che i transalpini non amavano particolarmente le parole di origine straniera, soprattutto inglese; tanto per fare due esempi che mi sono rimasti impressi, il computer lo chiamavano "ordinateur", e il mouse "souris" (letteralmente, topo). In seguito col passare degli anni, man mano che mi è capitato di leggere testi scritti nella meravigliosa lingua d'Oltralpe, ho avuto l'impressione che quella rigidità stesse venendo meno.
Di recente sulla pagina Facebook del quotidiano francese Le Figaro è stata riportata l'opinione del saggista e filosofo parigino Alain Finkielkraut al riguardo.
I due termini "liker" e "challenge" dovrebbero essere tolti dal dizionario. Come mai? Perché "aimer" [in francese per dire "mi piace questa cosa" si dice "j'aime cette chose", amo questa cosa; il soggetto è la persona, come avviene in inglese, mentre in italiano è la cosa che piace, NdC] esiste nella lingua francese. E anche "défi", sfida. Quindi sono parole inutili. E questa invasione del globish mi ricorda una meravigliosa osservazione di André Gide: «Un popolo che tiene alla propria lingua è un popolo che resiste» [purtroppo nella traduzione italiana il gioco di parole fra "tenir à sa langue" e "tenir bon" va a farsi benedire, NdC]. La lingua francese sta cedendo e penso che questo significhi anche un cedimento della nazione francese. Quindi bisognerà essere in grado di riprendersi e di finirla, e almeno escludere "liker", "challenge" e perché no "streaming", "coaching", ecc.
A me sembra un punto di vista abbastanza condivisibile. Senza arrivare agli assurdi eccessi dell'era fascista, quando nella smania di mettere al bando le parole straniere il cocktail venne ridicolmente ribattezzato "bevanda arlecchina", se in italiano il termine per esprimere un concetto esiste, perché non usarlo?!
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