Nei giorni scorsi è diventato virale il testo qui sotto, scritto da una certa Federica Sanesi.
Chiamatemi avvocato, al maschile
senza scomodare l'Accademia della Crusca e i massimi esperti della lingua italiana.
Non ho bisogno di una declinazione di genere per sentirmi tutelata/apprezzata/valorizzata/identificata.
Sono un avvocato, proprio come Giorgio, Roberto, Marco, Luca e tanti altri. Non ho bisogno di distinguermi facendo vanto di una 'A' quasi fosse una spilla sul petto.
Io sono una di loro, esattamente come loro.
In ambito professionale a nessuno deve interessare se sono donna o uomo. Se entro in tribunale con i mocassini o con le scarpe a spillo. Se porto la cravatta o metto il rossetto. Quando esercito la professione sono un avvocato, semplicemente, tutto il resto è pura ipocrisia.
Chiamatemi avvocato, per favore, che il termine avvocata suona tanto come una beffa o, ancor peggio, come un premio di consolazione.
Nei commenti la sociolinguista Vera Gheno si è limitata a linkare un suo articolo sui nomi delle professioni al femminile, ma la miglior replica a tutto ciò l'ha scritta Daniela Brogi alla quale sono riconoscente, da ingegnera quale sono.
Ieri mi è passato sotto gli occhi l’ennesimillesimo post acchiappaconsensi della donna che rivendica il suffisso maschile per la propria professione - che, come sempre, è per l’appunto una professione, vale a dire non un mestiere, un lavoro da “genti meccaniche” come avrebbe detto l’Anonimo dei Promessi sposi, riferendosi appunto alle persone che usano le mani per lavorare; per farla breve, come già si è detto più volte qui, e poi meglio anche ne #lospaziodelledonne, lo scrupolo grammaticale per le serve, le lavandaie, le operaie, non se l’è mai posto nessuna, dunque siamo all’interno di una rivendicazione che ha ragione di esistere proprio a titolo di rivendicazione di una distinzione di classe, usata come argomento di potere.
Ma, come dicevo, se ne è già parlato, e lo ha fatto tante volte anche l’ottima Vera Gheno che non smetto di ammirare per la sua pazienza. Già siamo giunte /i a capire che a un certo punto diventa una forma di democrazia anche oltrepassare le chiacchiere di chi pretenderebbe ascolto senza mai aver letto nulla - pur potendolo, anzi dovendolo fare, visto che svolge una professione per cui è necessaria la laurea, e che per giunta richiede la difesa dei diritti, se, per esempio, si lavora in un tribunale.
Tutto è già stato detto, dimostrato. Non siamo nei territori delle opinioni, ma tra i dati di fatto della libertà democratica - e dell’ecologia linguistica.
Eppure continuiamo a aver bisogno di parole giuste, anche semplici, essenziali, che riescano a liberarci dalle frasi fatte e dall’ ignoranza premeditata.
Così propongo, ancora, #dallapartedebambine
perche funziona, in maniera lineare e pulita, senza fare tante storie. È una domanda, una prospettiva, uno spazio, un modo di oltrepassare sé stesse/i. Tutte le volte che ci fossero ancora dei dubbi anche sull’uso grammaticale non unico ci si può provare a chiedere se la questione includa in prospettiva (oppure no) il futuro che noi stiamo preparando #dallapartedellebambine.
Quando le bambine non ci sono, non esistono, anche a partire dalla grammatica, andate oltre, mettete in salvo il vostro tempo, perché sono chiacchiere da avvocati del patriarcato.
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