Ma adesso basta, ho scritto anche troppo, e passo la parola a Vera Gheno, social media manager dell'Accademia della Crusca, nel cui post davvero provvidenziale mi sono imbattuta subito dopo quello sulla Fedeli (riguardo alla quale tutt'al più potrei osservare che è quantomeno bizzarro avere una ministra dell'Istruzione – l'Istruzione!!! – che di fatto non è andata oltre la licenza media, ma questo è un altro discorso). Riporto qui di seguito il testo dello "spiegone" di Vera, che mi sono limitata a riformattare un pochino.
- In italiano tutte le parole hanno un genere grammaticale: o sono maschili o sono femminili. Non esiste il genere neutro, e non è realistico pensare di "introdurlo a tavolino" o "crearlo dal nulla".
- Non tutte le parole di genere maschile finiscono in -o: per ragioni etimologiche, abbiamo anche parole maschili che finiscono in -e oppure -a. Quindi quando qualcuno obietta "e allora giornalisto o pediatro", dimostra solo un'enorme mancanza di competenza etimologica e linguistica.
- Per motivi storici, alcuni nomi di professione erano o sono soprattutto maschili (esattore), altri soprattutto femminili (ostetrica). In molti casi, quando un rappresentante del sesso opposto ha iniziato a praticare quella certa professione, si è eventualmente creata la parola del genere corrispondente per designarlo: esattrice, ostetrico. In altri casi basta cambiare l'articolo: un'estetista, un estetista. La differenza di genere torna nel plurale: le estetiste, gli estetisti.
- Il problema, tuttavia, non si pone tanto per i lavori "normali", quanto per le cariche istituzionali o per incarichi di livello: ministra, assessora, ingegnera, sindaca. Tali forme sono definite da molti "cacofoniche", "una violenza linguistica", "abomini", "tentativo di modificare dall'alto la lingua". Io dico: e se fossero soprattutto insolite? Linguisticamente non sono certo errate o non previste dal sistema. E la bruttezza non è un concetto linguistico.
- I femminili si sono stratificati nel tempo, sono numerosi e sono formati in maniere diverse: ad esempio abbiamo le coppie professore-professoressa, direttore-direttrice, infermiere-infermiera, o i nomi che finiscono in -a per entrambi e si differenziano al plurale, tipo astronauta-astronauti/e. Per le nuove formazioni, i linguisti consigliano, ove possibile, di scegliere il femminile a suffisso zero: ingegnera e non ingegneressa, ma anche sindaca e non sindachessa, che esiste già ma solitamente designava la moglie del sindaco. Questo per le nuove parole. Linguisticamente, è poco produttivo mettere mano a parole già correnti nell'uso, quindi rimangono dottoressa, professoressa e simili. Insomma, il sistema è lungi dall'essere perfetto e perfettamente simmetrico.
- Esiste una manciata di casi di nomi professionali al femminile anche per referenti di genere maschile: guardia, sentinella, vedetta. Anche qui, ci sono dietro ragioni storiche. Ma soprattutto, dubito che qualche guardia di sesso maschile si sia mai sentita discriminata perché definita da un nome di genere femminile: anche in questo caso, il sistema non è, appunto, perfettamente simmetrico. Ma sono pochi casi, che non inficiano il discorso fatto sopra. Soprattutto, rivendicazioni in tale senso non avrebbero, alla fine, niente a che fare con la questione inversa: il problema della posizione delle donne nel mondo del lavoro c'è ed è inutile far finta che non ci sia.
- Nemmeno tutte le donne sono d'accordo sulla posizione da prendere in merito alla questione: esiste una corrente a favore della sovraestensione del maschile come neutro ("mi faccio chiamare avvocato perché così finché non mi vedono non c'è un pregiudizio legato al fatto che sono donna"), un'altra a favore dell'esplicitazione del genere maschile e femminile ("se sono femmina, perché dovrei essere senatore e non senatrice?"). Sono due posizioni, entrambe lecite, e non ha molto senso che le rappresentanti di una corrente dicano peste e corna dell'altra. Ma ancor meno senso ha, scusatemi, che siano i maschi a dire alle donne che la questione è da disprezzare in toto.
- Detto tutto questo, dissentire è lecito e possibile. Ma nel dissentire...
- non usiamo l'esempio fallace di "sindacalisto" o "giornalisto", perché è linguisticamente insensato;
- non usiamo il controesempio dei pochissimi termini femminili al maschile perché la situazione, appunto, non è simmetrica;
- non usiamo la scusa che i femminili sono "cacofonici", perché una parola non dovrebbe mai essere giudicata per la sua "bellezza" (criterio abbastanza soggettivo), quanto per la sua utilità;
- non irridiamo Boldrini dandole della "presidenta", mai avallato da nessuno ma nato dalla mente poco propensa al fact checking di qualche giornalista;
- non sminuiamo tutta la questione con la scusa del benaltrismo, ossia che i problemi delle donne sono ben altri: credo che ne siamo consapevoli tutti, ma la discussione sul femminile dei nomi di professione è solo un tassello in una questione molto più ampia, che può convivere con richieste e rivendicazioni di altro tipo;
- non inficiamo una discussione che va avanti da almeno trent'anni appiattendola sulla posizione di singole rappresentanti della corrente che magari non ci piacciono per ragioni politiche (cfr. Boldrini, Fedeli).
- Io sono a favore dell'autodeterminazione: che ogni donna possa decidere in autonomia se essere avvocato o avvocata, ministro o ministra, senatore o senatrice, sindaco o sindaca, e addiritura poetessa o poeta (alcune poete donne vogliono essere chiamate così).
Un saluto dalla gestrice di un certo profilo Twitter.
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