Ieri sera sono stata alla Libreria Primo Moroni – che a quanto pare sta svendendo tutti i libri perché la gente, coff coff, non legge più :-( – per il nuovo appuntamento della serie Film & Drink: dopo la consumazione di un aperitivo o merenda – questa volta io ho optato per qualcosa di dolce, tè e torta al cioccolato :-P – è stato proiettato il film etiope Difret – Il coraggio per cambiare, coprodotto da Angelina Jolie (il cui impegno umanitario è ben noto) e vincitore di numerosi premi. A differenza di ciò che pensavo Difret non era il nome della protagonista, bensì una parola nella lingua ufficiale etiope, l'amarico, che «ha due significati: nell'uso più comune significa "coraggio", ma può anche essere riferito all'uso della violenza nello stupro». E difatti erano proprio la violenza e il coraggio i temi portanti del film, tratto da una storia realmente accaduta vent'anni fa.
Devi sapere che nelle zone rurali dell'Etiopia vigeva – ma probabilmente vige ancora – una tradizione alquanto primitiva: un uomo interessato a una donna non ha bisogno del consenso di lei e dei suoi genitori per poterla prendere in moglie, ma gli basta rapirla e violentarla, e in questo modo viene meno ogni opposizione al matrimonio "riparatore". È così che la quattordicenne Hirut, che a sposarsi non ci pensa affatto, mentre torna a casa da scuola viene rapita da un gruppo di uomini a cavallo capeggiato dal suo pretendente Tadele, il quale le ruba la verginità. Approfittando di una leggerezza del suo aguzzino, Hirut scappa dalla capanna dove era tenuta prigioniera, non prima di essersi impossessata del fucile; ben presto il gruppo individua la fuggitiva e la rincorre. Vistasi braccata, la ragazzina spara un colpo per intimidire i suoi inseguitori, ma poiché questi non accennano a lasciarla andare spara un altro colpo uccidendo Tadele. Hirut sembra destinata alla condanna a morte per omicidio, o nel migliore dei casi al carcere a vita, ma Meaza Ashenafi, avvocatessa di Addis Abeba fondatrice di un'associazione che offre assistenza legale gratuita a chi non può permettersela, prende a cuore il suo caso e sostiene che abbia agito per legittima difesa; la donna dovrà superare tutta una serie di ostacoli, a cominciare dall'impossibilità di stabilire con certezza l'età della sua assistita. In attesa del processo in tribunale la comunità di cui fa parte Hirut ha già emesso la sua sentenza contro la ragazzina, colpevole di aver tolto la vita a un uomo ma anche, se non soprattutto, di aver infranto una tradizione assai radicata: il consiglio degli anziani – tutti uomini – la condanna all'esilio, giurandole vendetta qualora dovesse rimettere piede nel villaggio.
A tratti, durante la visione del film, sentivo il sangue che mi ribolliva nelle vene... e ripensavo a una vicenda geograficamente più vicina a me, ma che dal punto di vista culturale mi sembra così assurdamente remota: quella di Franca Viola, oggi settantenne. Le ho già dedicato un post, mentre puoi leggere qui una sua intervista recente. Nel 1965 – non stiamo mica parlando del Medioevo, insomma – fu lei la prima donna italiana a rifiutare il matrimonio riparatore. È a lei e al suo coraggio – perché all'epoca ce ne voleva parecchio, di coraggio, per opporsi a certe usanze – che noi donne italiane dobbiamo alcuni importanti progressi legislativi: nel 1981 è stato abrogato l'articolo del codice penale che prevedeva l'estinzione del reato di violenza sessuale purché l'aggressore sposasse la sua vittima, mentre è soltanto dal 1996 che lo stupro è legalmente riconosciuto in Italia come un reato contro la persona e non più contro la morale. Se poi penso che il suffragio universale, che concedeva anche alle donne il diritto di voto, è stato introdotto in Italia appena settantun anni fa – era proprio il 1° febbraio del 1945 – mi rendo conto che ne abbiamo fatti, di passi avanti in termini di diritti. E ciò mi infonde un cauto ottimismo circa i passi che restano ancora da fare...
Passi avanti ma ad una lentezza allucinante: sempre o quasi ultima ruota del carro l'Italia
RispondiElimina